VI. Il furto

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Quello scaffale, appena fui solo, mi occupò subito, come un incubo. Proprio come viva per sé ne avvertii la presenza ingombrante, d'antico inviolato custode di tutti gli incartamenti di cui era gravido, cosí vecchio, pesante e tarlato.

Lo guardai, e subito mi guardai attorno, con gli occhi bassi.

La finestra; una vecchia seggiola impagliata; un tavolino ancora piú vecchio, nudo, nero e coperto di polvere; non c'era altro lì dentro.

E la luce filtrava squallida dai vetri cosí intonacati di ruggine e polverosi, che lasciavano trasparire appena le sbarre dell'inferriata e i primi tegoli sanguigni d'un tetto, su cui la finestra guardava.

I tegoli di quel tetto, il legno verniciato di quelle imposte di finestra, quei vetri per quanto sudici: immobile calma delle cose inanimate.

E pensai all'improvviso che le mani di mio padre s'erano levate cariche d'anelli lì dentro a prendere gl'incartamenti dai palchetti di quello scaffale; e le vidi, come di cera, bianche, grasse, con tutti quegli anelli e i peli rossi sul dorso delle dita; e vidi gli occhi di lui, come di vetro, azzurri e maliziosi, intenti a cercare in quei fascicoli.

Allora, con raccapriccio, a cancellare lo spettro di quelle mani, emerse ai miei occhi e si impose lì, solido, il volume del mio corpo vestito di nero; sentii il respiro affrettato di questo corpo entrato lì per rubare; e la vista delle mie mani che aprivano gli sportelli di quello scaffale mi diede un brivido alla schiena. Serrai i denti; mi scrollai; pensai con rabbia:

«Dove sarà, tra tanti incartamenti, quello che mi serve?»

E tanto per far subito qualche cosa, cominciai a tirar giù a bracciate i fascicoli e a buttarli sul tavolino. A un certo punto le braccia mi s'indolenzirono, e non seppi se dovessi piangerne o riderne. Non era uno scherzo quel rubare a me stesso?

Tornai a guardarmi intorno, perché improvvisamente non mi sentii piú, là dentro, sicuro di me. Stavo per compiere un atto. Ma ero io? Mi risalì l'idea che fossero entrati lì tutti gli estranei inseparabili da me, e che stéssi a commettere quel furto con mani non mie.

Me le guardai.

Sí: erano quelle che io mi conoscevo. Ma appartenevano forse soltanto a me?

Me le nascosi subito dietro la schiena; e poi, come se non bastasse, serrai gli occhi.

Mi sentii in quel bujo una volontà che si smarriva fuori d'ogni precisa consistenza; e n'ebbi un tale orrore, che fui per venir meno anche col corpo; protesi istintivamente una mano per sorreggermi al tavolino; sbarrai gli occhi:

– Ma sí! ma sí! – dissi. – Senza nessuna logica! senza nessuna logica! cosí!

E mi diedi a cercare tra quelle carte.

Quanto cercai? Non so. So che quella rabbia di nuovo cedette a un certo punto, e che una piú disperata stanchezza mi vinse, ritrovandomi seduto sulla seggiola davanti a quel tavolino, tutto ormai ingombro di carte ammonticchiate, e con un'altra pila di carte io stesso qua sulle ginocchia, che mi schiacciava.Vi abbandonai la testa e desiderai, desiderai proprio di morire, se questa disperazione era entrata in me da non poter piú lasciare di condurre a fine quell'impresa inaudita.

E ricordo che lì, con la testa appoggiata sulle carte, tenendo gli occhi chiusi forse a frenar le lagrime, udivo come da una infinita lontananza, nel vento che doveva essersi levato fuori, il lamentoso chioccolare d'una gallina che aveva fatto l'uovo e che quel chioccolío mi richiamò a una mia campagna, dove non ero piú stato fin dall'infanzia; se non che, vicino, di tratto in tratto, m'irritava lo scricchiolío dell'imposta della finestra urtata dal vento. Finché due picchi all'uscio inattesi non mi fecero sobbalzare. Gridai con furore:

– Non mi seccate!

E subito mi ridiedi a cercare accanitamente.

Quando alla fine trovai il fascicolo con tutti gl'incartamenti di quella casa, mi sentii come liberato; balzai in piedi esultante, ma subito dopo mi voltai a guardar l'uscio. Fu cosí rapido questo cangiamento dall'esultanza al sospetto, che mi vidi – e n'ebbi un brivido. Ladro! Rubavo. Rubavo veramente. Andavo a mettermi con le spalle contro quell'uscio; mi sbottonavo il panciotto; mi sbottonavo il petto della camicia e vi cacciavo dentro quel fascicolo ch'era abbastanza voluminoso.

Uno scarafaggio non ben sicuro sulle zampe sbucò in quel punto di sotto lo scaffale, diretto verso la finestra. Vi fui subito sopra col piede e lo schiacciai.

Col volto strizzato dallo schifo, rimisi alla rinfusa tutti gli altri incartamenti dentro lo scaffale, e uscii dallo stanzino.

Per fortuna Quantorzo, Firbo e tutti i commessi erano già andati via; c'era solo il vecchio custode, che non poteva sospettare di nulla.

Provai nondimeno il bisogno di dirgli qualche cosa:

– Pulite per terra là dentro: ho schiacciato uno scarafaggio.

E corsi in Via del Crocefisso allo studio del notaro Stampa.

Uno, nessuno e centomilaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora