III. Le radici

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M'apparve. Alto, grasso, calvo. E nei limpidi quasi vitrei occhi azzurrini il solito sorriso gli brillava per me, d'una strana tenerezza, ch'era un po' compatimento, un po' derisione anche, ma affettuosa, come se in fondo gli piacesse ch'io fossi tale da meritarmela, quella sua derisione, considerandomi quasi un lusso di bontà che impunemente egli si potesse permettere.

Se non che, questo sorriso, nella barba folta, cosí rossa e cosí fortemente radicata che gli scoloriva le gote, questo sorriso sotto i grossi baffi un po' ingialliti nel mezzo, era a tradimento, ora, una specie di ghigno muto e frigido, lì nascosto; a cui non avevo mai badato. E quella tenerezza per me, affiorando e brillando negli occhi da quel ghigno nascosto, m'appariva ora orribilmente maliziosa: tante cose mi svelava a un tratto che mi fendevano di brividi la schiena. Ed ecco lo sguardo di quegli occhi vitrei mi teneva, mi teneva affascinato per impedirmi di pensare a queste cose, di cui pure era fatta la sua tenerezza per me, ma che pure erano orribili.

– Ma se tu eri e sei ancora uno sciocco... sí, un povero ingenuo sventato, che te ne vai appresso ai tuoi pensieri, senza mai fermarne uno per fermarti; e mai un proposito non ti sorge, che tu non ti ci metta a girare attorno, e tanto te lo guardi che infine ti ci addormenti, e il giorno appresso apri gli occhi, te lo vedi davanti e non sai piú come ti sia potuto sorgere se jeri c'era quest'aria e questo sole; per forza, vedi, io ti dovevo voler bene cosí. Le mani? che mi guardi? ah, questi peli rossi qua, anche sul dorso delle dita? gli anelli... troppi? e questa grossa spilla alla cravatta, e anche la catena dell'orologio... Troppo oro? che mi guardi?

Vedevo stranamente la mia angoscia distrarsi con sforzo da quegli occhi, da tutto quell'oro e affiggersi in certe venicciuole azzurrognole che gli trasparivano serpeggianti su su per la pallida fronte con pena, sul lucido cranio contornato dai capelli rossi, rossi come i miei – cioè, i miei come i suoi – e che miei dunque, se cosí chiaramente m'erano venuti da lui? E quel lucido cranio a poco a poco, ecco, mi svaniva davanti come ingoiato nel vano dell'aria.

Mio padre!

Nel vano, ora, un silenzio esterrefatto, grave di tutte le cose insensate e informi, che stanno nell'inerzia mute e impenetrabili allo spirito.

Fu un attimo, ma l'eternità. Vi sentii dentro tutto lo sgomento delle necessità cieche, delle cose che non si possono mutare: la prigione del tempo; il nascere ora, e non prima e non poi; il nome e il corpo che ci è dato; la catena delle cause; il seme gettato da quell'uomo: mio padre senza volerlo; il mio venire al mondo, da quel seme; involontario frutto di quell'uomo; legato a quel ramo; espresso da quelle radici. 

Uno, nessuno e centomilaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora