II. Scoperte

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Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante.

Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.

Parlavo con un amico: niente di strano: mi rispondeva; lo vedevo gestire; aveva la sua solita voce, riconoscevo i suoi soliti gesti; e anch'egli, standomi a sentire se gli parlavo, riconosceva la mia voce e i miei gesti. Nulla di strano, sí, ma finché io non pensavo che il tono che aveva per me la voce del mio amico non era affatto lo stesso di quella ch'egli si conosceva, perché forse il tono della sua voce egli non se lo conosceva nemmeno, essendo quella, per lui, la sua voce; e che il suo aspetto era quale io lo vedevo, cioè quello che gli davo io, guardandolo da fuori, mentre lui, parlando, non aveva davanti alla mente, certo, nessuna immagine di se stesso, neppur quella che si dava e si riconosceva guardandosi allo specchio.

Oh Dio, e che avveniva allora di me? avveniva lo stesso della mia voce? del mio aspetto? Io non ero piú un indistinto io che parlava e guardava gli altri, ma uno che gli altri invece guardavano, fuori di loro, e che aveva un tono di voce e un aspetto ch'io non mi conoscevo. Ero per il mio amico quello che egli era per me: un corpo impenetrabile che gli stava davanti e ch'egli si rappresentava con lineamenti a lui ben noti, i quali per me non significavano nulla; tanto vero che non ci pensavo nemmeno, parlando, né potevo vedermeli né saper come fossero; mentre per lui erano tutto, in quanto gli rappresentavano me quale ero per lui, uno tra tanti: Moscarda. Possibile? E Moscarda era tutto ciò che esso diceva e faceva in quel mondo a me ignoto; Moscarda era anche la mia ombra; Moscarda se lo vedevano mangiare; Moscarda, se lo vedevano fumare; Moscarda, se andava a spasso; Moscarda, se si soffiava il naso.

Non lo sapevo, non ci pensavo, ma nel mio aspetto, cioè in quello che essi mi davano, in ogni mia parola che sonava per loro con una voce ch'io non potevo sapere, in ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre c'erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo.

Se non che, ormai, per quanto potesse parermi stupido e odioso essere bollato cosí per sempre e non potermi dare un altro nome, tanti altri a piacere, che s'accordassero a volta a volta col vario atteggiarsi de' miei sentimenti e delle mie azioni; pure ormai, ripeto, abituato com'ero a portar quello fin dalla nascita, potevo non farne gran caso, e pensare che io infine non ero quel nome; che quel nome era per gli altri un modo di chiamarmi, non bello ma che avrebbe potuto tuttavia essere anche piú brutto. Non c'era forse un Sardo a Richieri che si chiamava Porcu? Sí.

– Signor Porcu...

E non rispondeva mica con un grugnito.

– Eccomi, a servirla...

Pulito pulito e sorridente rispondeva. Tanto che uno quasi si vergognava di doverlo chiamare cosí.

Lasciamo dunque il nome, e lasciamo anche le fattezze, benché pure – ora che davanti allo specchio mi s'era duramente chiarita la necessità di non poter dare a me stesso un'immagine di me diversa da quella con cui mi rappresentavo – anche queste fattezze sentivo estranee alla mia volontà e contrarie dispettosamente a qualunque desiderio potesse nascermi d'averne altre, che non fossero queste, cioè questi capelli cosí, di questo colore, questi occhi cosí, verdastri, e questo naso e questa bocca; lasciamo, dico, anche le fattezze, perché alla fin fine dovevo riconoscere che avrebbero potuto essere anche mostruose e avrei dovuto tenermele e rassegnarmi a esse, volendo vivere; non erano, e dunque via, dopo tutto, potevo anche accontentarmene.

Ma le condizioni? dico le condizioni mie che non dipendevano da me? le condizioni che mi determinavano, fuori di me, fuori d'ogni mia volontà? le condizioni della mia nascita, della mia famiglia? Non me l'ero mai poste davanti, io, per valutarle come potevano valutarle gli altri, ciascuno a suo modo, s'intende, con una sua particolar bilancia, a peso d'invidia, a peso d'odio o di sdegno o che so io.

M'ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo, cosí, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non me l'ero fatto io, come non me l'ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da altri senza mia volontà; cosí, senza mia volontà, tant'altre cose m'erano venute sopra dentro intorno, da altri; tant'altre cose m'erano state fatte, date da altri, a cui effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l'immagine strana, nemica, con cui mi s'avventavano adesso.

La storia della mia famiglia! La storia della mia famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero uno, l'ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in quante abitudini d'atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare. Mi credevo un uomo nella vita, un uomo qualunque, che vivesse cosí alla giornata una scioperata vita in fondo, benché piena di curiosi pensieri vagabondi; e no, e no: potevo essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie determinazioni, ch'io non m'ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel mio poter credermi un uomo qualunque voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio mio, non era neanche mio per gli altri: m'era stato dato da mio padre, dipendeva dalla ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre...

Ah, che scoperta! Mio padre... La vita di mio padre...

Uno, nessuno e centomilaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora