VI. Il buon figliuolo feroce

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Con gli occhi pieni dell'orrore di questa scoperta, ma velato l'orrore da un avvilimento, da una tristezza che pur mi atteggiavano le labbra a un sorriso vano, nel sospetto che nessuno potesse crederli e ammetterli in me davvero, io allora mi presentai davanti a Dida mia moglie.

Se ne stava – ricordo – in una stanza luminosa, vestita di bianco e tutta avvolta entro un fulgore di sole, a disporre nel grande armadio laccato bianco e dorato a tre luci i suoi nuovi abiti primaverili.

Facendo uno sforzo, acre d'onta segreta, per trovarmi in gola una voce che non paresse troppo strana, le domandai:

– Tu lo sai, eh Dida, qual è la mia professione?

Dida, con una gruccia in mano da cui pendeva un abito di velo color isabella, si voltò a guardarmi dapprima, come se non mi riconoscesse. Stordita, ripeté:

– La tua professione?

E dovetti riassaporar l'agro di quell'onta per riprendere, quasi da un dilaceramento del mio spirito, la domanda che ne pendeva. Ma questa volta mi si sfece in bocca:

– Già, – dissi – che cosa faccio io?

Dida, allora, stette un poco a mirarmi, poi scoppiò in una gran risata:

– Ma che dici, Gengè?

Si fracassò d'un tratto allo scoppio di quella risata il mio orrore, l'incubo di quelle necessità cieche in cui il mio spirito, nella profondità delle sue indagini, s'era urtato poc'anzi, rabbrividendo

Ah, ecco – un usurajo, per gli altri; uno stupido qua, per Dida mia moglie. Gengè io ero; uno qua, nell'animo e davanti agli occhi di mia moglie; e chi sa quant'altri Gengè, fuori, nell'animo o solamente negli occhi della gente di Richieri. Non si trattava del mio spirito, che si sentiva dentro di me libero e immune, nella sua intimità originaria, di tutte quelle considerazioni delle cose che m'erano venute, che mi erano state fatte e date dagli altri, e principalmente di questa del danaro e della professione di mio padre.

No? E di chi si trattava dunque? Se potevo non riconoscer mia questa realtà spregevole che mi davano gli altri, ahimè dovevo pur riconoscere che se anche me ne fossi data una, io, per me, questa non sarebbe stata piú vera, come realtà, di quella che mi davano gli altri, di quella in cui gli altri mi facevano consistere con quel corpo che ora, davanti a mia moglie, non poteva neanch'esso parermi mio, giacché se l'era appropriato quel Gengè suo, che or ora aveva detto una nuova sciocchezza per cui tanto ella aveva riso. Voler sapere la sua professione E che non si sapeva?

– Lusso di bontà... – feci, quasi tra me, staccando la voce da un silenzio che mi parve fuori della vita, perché, ombra davanti a mia moglie, non sapevo piú donde io – io come io – le parlassi.

– Che dici? – ripeté lei, dalla solidità certa della sua vita, con quell'abito color isabella sul braccio.

E com'io non risposi, mi venne avanti, mi prese per le braccia e mi soffiò sugli occhi, come a cancellarvi uno sguardo che non era piú di Gengè, di quel Gengè il quale ella sapeva che al pari di lei doveva fingere di non conoscere come in paese si traducesse il nome della professione di mio padre.

Ma non ero peggio di mio padre, io? Ah! Mio padre almeno lavorava... Ma io! Che facevo io? Il buon figliuolo feroce. Il buon figliuolo che parlava di cose aliene (bizzarre anche): della scoperta del naso che mi pendeva verso destra: oppure dell'altra faccia della luna; mentre la cosí detta banca di mio padre, per opera dei due fidati amici Firbo e Quantorzo, seguitava a lavorare, prosperava. C'erano anche socii minori, nella banca, e anche i due fidati amici vi erano – come si dice – cointeressati, e tutto andava a gonfie vele senza ch'io me n'impicciassi punto, voluto bene da tutti quei consocii, da Quantorzo, come un figliuolo, da Firbo come un fratello; i quali tutti sapevano che con me era inutile parlar d'affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare; firmavo e quest'era tutto. Non tutto, perché anche di tanto in tanto qualcuno veniva a pregarmi d'accompagnarlo a Firbo o a Quantorzo con un bigliettino di raccomandazione; già! e io allora gli scoprivo sul mento una fossetta che glielo divideva in due parti non perfettamente uguali, una piú rilevata di qua, una piú scempia di là.

Come non m'avevano finora accoppato? Eh, non m'accoppavano, signori, perché, com'io non m'ero finora staccato da me per vedermi, e vivevo come un cieco nelle condizioni in cui ero stato messo, senza considerare quali fossero, perché in esse ero nato e cresciuto e m'erano perciò naturali; cosí anche per gli altri era naturale ch'io fossi cosí; mi conoscevano cosí; non potevano pensarmi altrimenti, e tutti potevano ormai guardarmi quasi senz'odio e anche sorridere a questo buon figliuolo feroce.

Tutti?

Mi sentii a un tratto confitti nell'anima due paja d'occhi come quattro pugnali avvelenati: gli occhi di Marco di Dio e di sua moglie Diamante, che incontravo ogni giorno sulla mia strada, rincasando.

Uno, nessuno e centomilaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora