XII. Quel caro Gengè

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– No no, bello mio, statti zitto! Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti, io, e come tu la pensi.

Quante volte non m'aveva detto cosí Dida mia moglie? E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.

Ma sfido ch'ella conosceva quel suo Gengè piú che non lo conoscessi io! Se l'era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.

Sopraffazione? Sostituzione?

Ma che!

Per sopraffare uno, bisogna che questo uno esista; e per sostituirlo, bisogna che esista ugualmente e che si possa prendere per le spalle e strappare indietro per mettere un altro al suo posto.

Dida mia moglie non m'aveva né sopraffatto né sostituito. Sarebbe sembrata a lei al contrario una sopraffazione e una sostituzione, se io, ribellandomi e armando comunque una volontà d'essere a mio modo, mi fossi tolto dai piedi quel Suo Gengè.

Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito.

La realtà mia era per lei in quel suo Gengè che ella s'era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe piú potuto né comprendere né amare.

Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio proprio e particolare, sia per non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e sentire anche il contrario di ciò che poc'anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni ogni formazione mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui, non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.

Ed ecco, intanto, che me n'era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà.

Gengè, sí, l'aveva, per mia moglie Dida. Ma non potevo in nessun modo consolarmene perché v'assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura piú sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida.

E il bello, intanto, era questo: che non era mica senza difetti per lei quel suo Gengè. Ma ella glieli compativa tutti! Tante cose di lui non le piacevano, perché non se l'era costruito in tutto a suo modo, secondo il suo gusto e il suo capriccio: no.

Ma a modo di chi allora?

Non certo a modo mio, perché io, ripeto, non riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti che ella attribuiva al suo Gengè. Si vede dunque chiaramente che glieli attribuiva perché, secondo lei, Gengè aveva quei gusti e pensava e sentiva cosí, a modo suo, c'è poco da dire, propriamente suo, secondo la sua realtà che non era affatto la mia.

La vedevo piangere qualche volta per certe amarezze ch'egli, Gengè, le cagionava. Egli, sissignori! E se le domandavo:

Ma perché, cara?

Uno, nessuno e centomilaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora