VII. Lo scoppio

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Ho ancora negli orecchi lo scroscio dell'acqua che cade da una grondaia presso il fanale non ancora acceso, davanti alla catapecchia di Marco di Dio, nel vicolo già bujo prima del tramonto; e vedo lì ferma lungo i muri, per ripararsi dalla pioggia, la gente che assiste allo sfratto e altra gente che, sotto gli ombrelli, s'arresta per curiosità vedendo quella ressa e il mucchio delle misere suppellettili sgomberate a forza ed esposte alla pioggia lì davanti alla porta, tra le strida della signora Diamante che, di tratto in tratto, scarmigliata, viene anche alla finestra a scagliare certe sue strane imprecazioni accolte con fischi e altri rumori sguaiati dai monellacci scalzi i quali, senza curarsi della pioggia, ballano attorno a quel mucchio di miseria, facendo schizzar l'acqua delle pozze addosso ai piú curiosi, che ne bestemmiano. E i commenti:

– Piú schifoso del padre!

– Sotto la pioggia, signori miei! Non ha voluto aspettare neanche domani!

– Accanirsi cosí contro un povero pazzo!

– Usurajo! usurajo!

Perché io sono lì, presente, apposta, allo sfratto, protetto da un delegato e da due guardie.

– Usurajo! usurajo!

E ne sorrido. Forse, sí, un po' pallido. Ma pure con una voluttà che mi tiene sospese le viscere e mi solletica l'ugola e mi fa inghiottire. Solo che, di tanto in tanto, sento il bisogno d'attaccarmi con gli occhi a qualche cosa, e guardo quasi con indolenza smemorata l'architrave della porta di quella catapecchia, per isolarmi un po' in quella vista, sicuro che a nessuno, in un momento come quello, potrebbe venire in mente d'alzar gli occhi per il piacere d'accertarsi che quello è un malinconico architrave, a cui non importa proprio nulla dei rumori della strada: grigio intonaco scrostato, con qualche sforacchiatura qua e là, che non prova come me il bisogno d'arrossire quasi per un'offesa al pudore per conto d'un vecchio orinale sgomberato con gli altri oggetti dalla catapecchia ed esposto lì alla vista di tutti, su un comodino, in mezzo alla strada.

Ma per poco non mi costò caro questo piacere di alienarmi. Finito lo sgombero forzato, Marco di Dio, uscendo con sua moglie Diamante dalla catapecchia e scorgendomi nel vicolo tra il delegato e le due guardie, non poté tenersi, e mentre stavo a fissar quell'architrave, mi scagliò contro il suo vecchio mazzuolo di sbozzatore. M'avrebbe certo accoppato, se il delegato non fosse stato pronto a tirarmi a sé. Tra le grida e la confusione, le due guardie si lanciarono per trarre in arresto quello sciagurato messo in furore dalla mia vista; ma la folla cresciuta lo proteggeva e stava per rivoltarsi contro me, allorché un nero omiciattolo, malandato ma d'aspetto feroce, giovine di studio del notaro Stampa, montato su di un tavolino là tra il mucchio delle suppellettili sgomberate in mezzo al vicolo, quasi saltando e con furiosi gesticolamenti, si mise a urlare:

aro Stampa! State a sentire! Marco di Dio! Dov'è Marco di Dio? Vengo a nome del notaro Stampa ad avvertirlo che c'è una donazione per lui! Quest'usurajo Moscarda...

Ero, non saprei dir come, tutto un fremito, in attesa del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all'altro, agli occhi di tutti. Ma all'improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere come scaraventato e disperso di qua e di là a un'esplosione di fischi acutissimi, misti a urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che la donazione l'avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato.

– Morte! Abbasso! – urlava la folla. – Usurajo! usurajo!

Istintivamente, avevo alzato le braccia per far segno d'aspettare; ma mi vidi come in un atto d'implorazione e le riabbassai subito, mentre quel giovine di studio sul tavolino, sbracciandosi per imporre silenzio, seguitava a gridare:

– No! No! State a sentire! L'ha fatta lui, l'ha fatta lui, presso il notaro Stampa, la donazione! La donazione d'una casa a Marco di Dio!

Tutta la folla, allora, trasecolò. Ma io ero quasi lontano, disilluso, avvilito. Quel silenzio della folla, nondimeno, m'attrasse, come quando s'appicca il fuoco a un mucchio di legna, che per un momento non si vede e non si ode nulla, e poi qua un tútolo, là una stipa scattano, schizzano, e infine tutta la fascina crèpita lingueggiando di fiamme tra il fumo:

– Lui? – – Una casa? – Come? – Che casa? – – Silenzio! – Che dice? – Queste e altrettali domande cominciarono a scattar dalla folla, propagando rapidamente un vocío sempre piú fitto e confuso, mentre quel giovane di studio confermava:

– Sí, sí, una casa! la sua casa in Via dei Santi 15. E non basta! Anche la donazione di diecimila lire per l'impianto e gli attrezzi d'un laboratorio!

Non potei vedere quel che seguí; mi tolsi di goderne, perché mi premeva in quel momento di correre altrove. Ma seppi di lì a poco qual godimento avrei avuto, se fossi rimasto.

M'ero nascosto nell'àndito di quella casa in Via dei Santi, in attesa che Marco di Dio venisse a pigliarne possesso. Arrivava appena, in quell'àndito, il lume della scala. Quando, seguíto ancora da tutta la folla, egli aprì la porta di strada con la chiave consegnatagli dal notaro, e mi scorse lì addossato al muro come uno spettro, per un attimo si scontraffece, arretrando; mi lanciò con gli occhi atroci uno sguardo, che non dimenticherò mai piú; poi, con un arrangolío da bestia, che pareva fatto insieme di singhiozzi e di risa, mi saltò addosso frenetico, e prese a gridarmi, non so se per esaltarmi o per uccidermi, sbattendomi contro al muro:

– Pazzo! Pazzo! Pazzo!

Era lo stesso grido dl tutta la folla lì davanti la porta:

– Pazzo! Pazzo! Pazzo!

Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche per gli altri non essere quello che mi si credeva.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 27, 2020 ⏰

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