XI. Rientrando in città

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Guardatemi ora questi alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!

Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città! Pare che chiedano, nel vedersi cosí specchiati in queste vetrine di botteghe, che stiano a farci qua, tra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestío della vita cittadina. Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli. Orecchi, non mostrano d'averne. Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.

Siete mai stati nella piazzetta dell'Olivella, fuori le mura? al conventino antico dei Trinitarii bianchi? Che aria di sogno e d'abbandono, quella piazzetta, e che silenzio strano, quando dalle tegole nere e muschiose di quel convento vecchio, s'affaccia bambino, azzurro azzurro, il riso della mattina!

Ebbene, ogni anno la terra, lì, nella sua stupida materna ingenuità, cerca d'approfittare di quel silenzio. Forse crede che lì non sia piú città; che gli uomini abbiano disertato quella piazzetta; e tenta di riprendersela, allungando zitta zitta, pian pianino, di tra il selciato, tanti fili d'erba. Nulla è piú fresco e tenero di quegli esili timidi fili d'erba di cui verzica in breve tutta la piazzetta. Ma ahimè non durano piú d'un mese. È città lì; e non è permesso ai fili d'erba di spuntare. Vengono ogni anno quattro o cinque spazzini; s'accosciano in terra e con certi loro ferruzzi li strappano via.

Io vidi l'altr'anno, lì, due uccellini che, udendo lo stridore di quei ferruzzi sui grigi scabri quadratini del selciato, volavano dalla siepe alla grondaia del Convento, di qua alla siepe di nuovo, e scotevano il capino e guardavano di traverso, quasi chiedessero, angosciati, che cosa stéssero a fare quegli uomini là.

– E non lo vedete, uccellini? – io dissi loro. – Non lo vedete che fanno? Fanno la barba a questo vecchio selciato.

Scapparono via inorriditi quei due uccellini.

Beati loro che hanno le ali e possono scappare! Quant'altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle campagne; e com'è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l'aratro.

Ma forse anch'esse le bestie, le piante e tutte le cose, hanno poi un senso e un valore per sé, che l'uomo non può intendere, chiuso com'è in quelli che egli per conto suo dà alle une e alle altre, e che la natura spesso, dal canto suo mostra di non riconoscere e d'ignorare.

Ci vorrebbe un po' piú d'intesa tra l'uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all'aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti... Ma l'uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione. Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a modo suo la materia che gli offre la natura ignara, forse, e, almeno quando vuole, paziente. Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L'uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.

Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch'io possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? È forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo.

Eppure, non c'è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.

Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d'un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione.

Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate sorprese.

Ma che belle costruzioni vengono fuori!

Uno, nessuno e centomilaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora