II. Ma fu totale

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Totale, perché bastò muovere in me appena appena, cosí per giuoco, la volontà di rappresentarmi diverso a uno dei centomila in cui vivevo, perché s'alterassero in centomila modi diversi tutte le altre mie realtà.

E per forza questo giuoco, se considerate bene, doveva fruttarmi la pazzia. O per dir meglio, quest'orrore: la coscienza della pazzia, fresca e chiara, signori, fresca e chiara come una mattinata d'aprile, e lucida e precisa come uno specchio.

Perché, incamminandomi verso quel primo esperimento, andavo a pórre graziosamente la mia volontà fuori di me, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca.

Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell'ombra di me che viveva realtà in un altro; cosí solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell'ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.

Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sí, un brutto tiro (scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d'ammiccare cosí, perché, non potendo sapere come v'appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare) cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse cosí agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri?

Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d'un simile atto non poteva esser quella che m'immaginavo: di presentarmi cioè a domandare a tutti, dopo:

– Vedete adesso, signori, che non è vero niente che io sia quell'usurajo che voi volete vedere in me?

Ma quest'altra, invece: che tutti dovessero esclamare, sbigottiti:

– O oh! sapete? l'usurajo Moscarda è impazzito!

Perché l'usurajo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva distruggere cosí d'un colpo, con un atto contrario a lui e incoerente. Non era un'ombra da giocarci e da pigliare a gabbo, l'usurajo Moscarda: un signore era da trattare coi dovuti riguardi, alto un metro e sessantotto, rosso di pelo come papà, il fondatore della banca, con le sopracciglia, sí, ad accento circonflesso e quel naso che gli pendeva verso destra come a quel caro stupido Gengè di mia moglie Dida: un signore, insomma, che Dio liberi, impazzendo, rischiava di trascinarsi al manicomio con sé tutti gli altri Moscarda ch'io ero per gli altri e anche, oh Dio, quel povero innocuo Gengè di mia moglie Dida; e, se permettete, anche me che, leggero e sorridente, ci avevo giocato.

Rischiai, cioè, rischiammo tutti quanti, come vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via della salute.

Ma non anticipiamo.

Uno, nessuno e centomilaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora