1. The first call

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Prologo:

Il profumo della torta alle fragole arieggiava nell'immensa sala da pranzo, mentre il brusio di troppe voci alte le ronzava nelle orecchie ad un ritmo a dir poco insostenibile.
Si portò una mano sullo stomaco, contendendo il crescente senso di nausea provocatole da quella confusione. Si disse che, ormai, doveva esserci abituata, ma le grandi cene di famiglia non le erano mai piaciute e non le piacevano tutt'ora.
Sua nonna le aveva fatto le trecce, per l'occasione. Le piaceva stare con nonna Gretchen, perché le raccontava sempre milioni di aneddoti e a lei pareva che, negli anni Quaranta, quando aveva vissuto la sua giovinezza, Gretchen si fosse divertita più di lei in diciotto anni di vita.
«Ne vuole un'altra fetta, signorina?» domandò il cameriere, chinandosi su di lei con aria cordiale, sostenendo il vassoio con la torta. La ragazza scosse gentilmente il capo, abbozzando un sorriso. Lo stomaco le brontolava, ma non le andava di ascoltarlo.
«Jordan, tesoro, i gomiti!» la ammonì sua madre, di fronte a lei, una voce stizzita, ma bonariamente dolce allo stesso tempo. Jordan cercò di non dare peso al tono di rimprovero e sorrise fingendosi grata dell'osservazione, spostando dal tavolo il gomito che non si era nemmeno accorta di aver puntato, mentre l'altro braccio giaceva ancora sulla sua pancia, nel tentativo di scaldarla.
La routine in casa Collins si svolgeva così da circa un anno: ogni domenica si ritrovavano nella loro sala da pranzo, con tutti i fratelli di suo padre, i loro figli perbenisti e posati e le loro mogli pomposamente agghindate in vestiti costosi. Jordan Collins era costretta ad indossare gli abiti eleganti e succinti che sua madre le faceva comprare, poi si faceva sistemare i capelli dalla nonna, l'unica nota positiva della giornata, e alla fine si sedeva a tavola per sorbirsi, con finta attenzione, i noiosi e vuoti discorsi circa gli affari e i guadagni dell'attività di famiglia.
«Va tutto bene, Jo?» la voce di Chase le arrivò attutita alle orecchie, come se fosse infilata in una grossa bolla insonorizzata. Era così che si sentiva, distante dal mondo e da quella famiglia. A volte pianificava di scappare, forse ne aveva un qualche diritto. Poi però si ricordava che l'unico suo diritto era quello di restare lì, inchiodata nella realtà della sua sfarzosa ricchezza, nei vizi e nei lussi in cui l'avevano fatta crescere, pronta a prendere le redini dell'impero paterno, al fianco di Chase Carter.
Jordan sorrise timidamente e voltò il viso verso di lui, scrutando il suo sguardo gentile e premuroso. Forse Chase era l'unica persona a cui poteva aggrapparsi, l'unica certezza che aveva. A volte lo pensava e si sentiva confusa, perché, in fondo, non aveva avuto molta voce in capitolo nemmeno nei suoi riguardi.
Chase le era stato messo accanto sin da piccolo, prematuramente costretto a giocare con lei in una sala giochi fin troppo lussuosa per due poppanti che non sapevano nemmeno parlarsi. Ma allora tutto era molto più semplice, il loro unico mezzo di comunicazione era il linguaggio dei gesti, un linguaggio che capivano solo loro due. Si scambiavano versi incomprensibili e si rotolavano insieme su un qualche tappetino imbottito e sonoro. Questo era tutto quello che dovevano fare: giocare e mangiare. All'epoca avevano poche necessità.
Jordan si sentiva stupida quando ripensava a quei tempi come agli anni della felicità più assoluta, agli anni segnati da quell'innocenza che, crescendo, era stata spazzata via da corsi di portamento e lezioni private. Anche Chase aveva perso parte di quel fascino da bamboccio che aveva, ora era un uomo bello ed elegante, educato e posato. Forse fin troppo perché lei potesse permetterselo. Ma, come era inevitabile che accadesse, ora si ritrovavano insieme, legati da una relazione in parte voluta e in parte addotta da necessità imprescindibili, quale quella di legare due regni altrimenti destinati a collidere.
Jordan si sentiva un po' lo strumento del fato, l'unica colla che potesse tenere insieme due tra le più ricche realtà familiari del South Carolina. Era questo che la costringeva a tenere i piedi per terra e a tapparsi le ali ogni volta che pensava al mondo là fuori: lei era importante, in famiglia, lei aveva un ruolo da svolgere. Era cresciuta per questo e non avrebbe deluso suo padre.
Strinse la mano di Chase, ora stancamente appoggiata sul suo grembo. Gli accarezzò il palmo, pensando a cosa si dovesse dire in certe occasioni. Non stava bene, si sentiva fuori luogo e disperatamente inadatta per sostenere quella cena. Non era la prima volta che le capitava, ma era la prima volta che percepiva in maniera così chiara e forte che non andava tutto bene.
Doveva accadere qualcosa, se lo sentiva fin nelle ossa, fin nel suo stomaco tormentato e protestante e non certo per la cena. Era una sorta di sesto senso, un brivido che la scuoteva mettendola immensamente a disagio nello stare lì.
«Va tutto bene, non preoccuparti» mentì, perché era l'unica risposta razionale che potesse dargli. Lui, infatti, annuì come se fosse la verità, o probabilmente credendoci davvero.
«D'accordo. Purtroppo, stasera non potrò stare a lungo in tua compagnia... devo occuparmi di alcuni affari, ma se non stai bene o hai bisogno di qualcosa puoi chiamarmi quando vuoi, va bene?» la incoraggiò, togliendo però la sua mano da quella di lei, sottraendosi a quel tocco che, anche se solo minimamente, le stava dando conforto. Jordan annuì mestamente, scrollando le spalle. Accadeva spesso che Chase la lasciasse prima durante una cena o un evento perché doveva occuparsi di affari non ben definiti di cui non le aveva mai parlato. Jordan aveva provato a chiedergli qualcosa, ma lui aveva sempre evitato strategicamente l'argomento. A dirla tutta, a lei non importava più di tanto. Probabilmente si trattava solo di noiosa burocrazia affidatagli dal padre o, nel peggiore dei casi, di feste collegiali a cui lui, per sua fortuna, era autorizzato a partecipare.
Jordan sperava che almeno lui potesse divertirsi, mentre lei era stipata in un borioso collegio femminile famoso per la sua attività plurimillenaria. Non che a lei importasse molto prendere ordini da suore decrepite che probabilmente avevano impartito lezioni alle dame del millesettecento, ma, purtroppo, questo era quello che la vita le aveva riservato. E, forse spinta da una qualche strana forma di Sindrome di Stoccolma, a volte Jordan si sentiva grata di quello che aveva.
«D'accordo, ti chiamo più tardi, allora» sorrise, lasciando che il fidanzato si alzasse e si congedasse dagli invitati alla cena. Jordan sospirò sonoramente, subito richiamata da un'occhiataccia da parte della madre: quella serata si prospettava sempre più noiosa e stancante. Tuttavia, continuava a sapere, nel profondo, che presto qualcosa sarebbe cambiato.

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