𝐷𝑜𝑛'𝑡 𝑓𝑜𝑟𝑔𝑒𝑡 𝑤h𝑒𝑟𝑒 𝑦𝑜𝑢 𝑏𝑒𝑙𝑜𝑛𝑔

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Don't forget where you belong, homeIf you ever feel alone, don'tYou were never on your ownAnd the proof is in this song

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Don't forget where you belong, home
If you ever feel alone, don't
You were never on your own
And the proof is in this song

["Don't Forget Where You Belong"- One direction]

"È inutile che fissi così lo specchio. Ti do io la risposta che cerchi: sì, quel mostro sei tu" affermò con un orribile sorrisetto sornione il mio caro fratellino Jake.

Lo mandai a quel paese cercando di urlare il meno possibile per non far udire le mie parole da mia madre.

Il nostro condominio cadeva a pezzi, era dimora di spacciatori e criminali che strillavano parolacce e bestemmie ogni ora del giorno.
Nonostante mia madre fosse abituata a tali termini anche da parte nostra era preferibile non farglieli sentire troppo sovente, si trattava comunque di mia madre.

Gli sbattei pesantemente la porta in faccia prima di maledirlo mentalmente per l'ennesima volta.

Legai rapidamente i miei lisci capelli neri in una coda di cavallo disordinata.

Successivamente mi avvicinai a passi di lumaca verso l'enorme specchio della mia camera.

Guardai più volte e sempre più attentamente il mio riflesso in cerca del minimo difetto nel mio outfit.

Mi buttai immediatamente all'indietro finendo per cadere sul mio morbido materasso bordeaux.

Sbuffai sonoramente fissando il soffitto crepato della mia stanza, il soffitto che osservavo ogni giorno da quando ero una bambina.

Come sarebbe stato vivere in una casa senza quella macchia di muffa all'angolo della camera o quel pezzo di muro cadente?

Sarebbero trascorsi due giorni e in seguito avrei vissuto il mio primo giorno di scuola nella Valley californiana: nuova città, nuova scuola, nuovi compagni e ,chissà, forse dei nuovi amici.

Penso di essere stata una delle sedicenni più disorganizzate nella storia del Mondo intero e, dato che bramavo intensamente che il primo giorno fosse memorabile (positivamente parlando, intendiamoci. Sicuramente non era nei miei piani fare una figuraccia di fronte a tutta la scuola scivolando sul pavimento appena lucidato della mensa scolastica finendo per far volare il vassoio e sporcare uno degli altri studenti così da essere segnata a vita come "la ragazza del vassoio"), decisi di pianificare tutto minuziosamente nel minimo dettaglio.

Io e la mia famiglia ci trovavamo ancora a Chicago (l'indomani saremmo partiti alle nove in punto verso l'afosa California).

Quel giorno avevo il compito di selezionare cosa avrei indossato per affrontare le sette ore infernali del primo giorno di scuola.

Ogni giorno impiegavo un'eternità a scegliere i miei vestiti per la scuola o per qualsiasi altra occasione perciò sapevo che avrei impiegato tanto per decidermi sul da farsi.

Tuttavia era è da ben due ore e mezza che ero chiusa in quella camera angusta che cadeva a pezzi a provare abiti su abiti.

Mi sentivo la testa scoppiare.
Le tempie pulsavano eccessivamente e il capo girava come un hula hoop impazzito.
Chiusi gli occhi cercando di calmare il dolore allucinante che provavo alla testa con dei respiri profondi invano.

"Jen" mamma mi chiamò dal piano inferiore come uno scaricatore di porto che richiamava i propri compagni sul molo.
Il suo alto tono di voce non fece altro che aumentare il mal di testa che mi assillava.

Mia madre continuava ad urlare il mio nome come se avesse avuto intenzione di evocare un demone.

Per farla smettere decisi di scendere rapidamente le scale con indosso il vestito celeste precedentemente bocciato.

Nel tragitto rischiai di inciampare sul gradino sfasciato che mio fratello aveva promesso di riparare mesi e mesi prima senza cadere rovinosamente ai piedi della scalinata.

Nonostante abitassi in quella casa da una vita intera e sapevo che quelle quattro mura che stavano a stento in piedi mi sarebbero mancate, non vedevo l'ora di lasciarmi quel lercio quartiere alle spalle.

Dovete sapere che non era uno dei più raccomandabili della città e che non avrei certamente rimpianto le urla alle sei del mattino del mio vicino schizofrenico Martin.
Era un uomo che amava fumare hashish e sniffare cocaina, non reggeva bene l'alcool ma era un uomo dal grande cuore d'oro.

Odiavo quel posto fin da bambina ma non avrei mai e poi mai dimenticato i bei momenti passati lì, non avrei mai dimenticato da dove venivo.

Dopo la fuga di mio padre quella era stata la nostra dimora e nonostante i suoi difetti, piccoli o grandi che fossero, è stata e sarà sempre la mia casa.

La casa non è costituita da un luogo bensì da persone e attimi, quel quartiere era l'alloggio dei miei ricordi.

"Che c'è?" chiesi a mia madre raggiungendola in cucina. Mi allungai per ghermire un bicchiere di vetro dalla credenza in alto sopra il lavabo. Subito dopo mi diressi verso il rubinetto riempiendolo d'acqua fino all'orlo.
Ne presi un sorso immediatamente dopo aver parlato e rischiai quasi di strozzarmi per l'esagerata rapidità di quel gesto.

Mia madre mi si avvicinò con fare apprensivo e inziò a colpirmi la schiena per far terminare la mia tosse continua; una volta passata si accomoda lentamente vicino al tavolo e mi squadra con uno sguardo languido.

"Tutto bene mamma?"

"Sei stupenda con questo vestito"

Istintivamente guardai il mio abito turchese e feci una smorfia schifata.

Il vestito mi piaceva molto, era un dei più eleganti ma allo stesso tempo sobri abiti su cui avessi mai posato lo sguardo.
Il problema ero io: avevo fissato la mia figura fasciata in quel vestitino azzurro per tantissimo tempo e non riuscivo a farmelo piacere.
Visto addosso al manichino del negozio o alle modelle nelle foto sembrava il vestito migliore del mondo ma una volta indossato più che un personaggio di Bridgerton sembravo un sacco della spazzatura.
Inoltre non potevo contare sul giudizio di mia madre in quanto mi diceva che stavo bene con qualsiasi cosa, anche se avessi indossato realmente un sacco dell' immondizia con due buchi per le braccia mi avrebbe detto quanto mi facesse risaltare il colore degli occhi.

Alzai nuovamente lo sguardo verso il suo volto dall'espressione dolce e rilassata.
Cercando di cambiare argomento le domandai per quale motivo mi avesse chiamata.

"Ti ho chiamata per vedere cosa avevi intenzione di mettere" affermò sorridendo amabilmente e graziosamente.
Mi appoggiai all'isola rovinata della cucina ponendo il peso su una sola gamba.

"Ti sta d'incanto" continuò lei indicando con un rapido movimento del capo l'indumento color cielo che indossavo.

"Grazie mami" le lasciai un bacio sulla guancia arrossata e corsi su per le scale con passo pesante.

Evitai di dirle che non lo avrei messo e che avrei sicuramente optato per un jeans o qualcosa di meno appariscente: non volevo darle l'ennesima delusione.

Glielo avrei riferito l'indomani lasciandola vivere nell'orrenda ma sicura menzogna per poche ore.

𝘍𝘳𝘪𝘦𝘯𝘥𝘴 𝘢𝘳𝘦 𝘵𝘩𝘦 𝘧𝘢𝘮𝘪𝘭𝘺 𝘺𝘰𝘶 𝘤𝘩𝘰𝘰𝘴𝘦//𝐶𝑂𝐵𝑅𝐴 𝐾𝐴𝐼Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora