capitolo uno

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Lavorare in una pizzeria non era una cosa semplice. Forse lo sembrava, specialmente per chi non lo aveva mai fatto. In realtà era un inferno. O almeno lo era per me.

Diciamo che non amavo la vita monotona di tutti i giorni. Anzi, diciamo che la odiavo. Odiavo la routine e tutto ciò che era ad essa collegata, come il programmare le cose cinque fottutissimi mesi prima, per essere sicuri che tutto vada bene, quando in realtà gli imprevisti arrivavano sempre, con o senza i cinque fottutissimi mesi di anticipo.

Della mia routine faceva parte il mio lavoro. Di merda. Il mio lavoro di merda. Lavoravo come cameriere in una pizzeria nel centro di Manhattan, A New York. Era un lavoro umile, e per molti era un lavoro passeggero, per fare esperienza. Inizialmente lo era anche per me, ma dopo averci lavorato per più di un anno, avevo paura che ci avrei passato la mia intera esistenza fino alla vecchiaia, forse fino alla morte se non avessi dato una svolta alla mia vita.

Io odiavo quella pizzeria. Si chiamava Carlo's dream. Il sogno di Carlo. Carlo era il proprietario ed il suo sogno era passare la sua vita a fare pizze che non poteva nemmeno mangiare. Come tutti lì dentro, si divertiva a fare battutine sul mio fantastico nome, William Smith. Mi facevo chiamare Will dagli amici, e quindi mi presentavo come Will. "Piacere, mi chiamo Will Smith". Ed ecco che partivano le risate e le battutine del cazzo.

"Will Smith? Come l'attore?"

"Cavolo però, non gli assomigli per niente"

"Sei troppo brutto per portare quel nome"

Ed io pensavo: vaffanculo brutti stronzi.

In effetti non mi avvicinavo nemmeno lontanamente a Will Smith. Ero bianco, sempre pallido come un cencio, ed in estate non mi abbronzavo nemmeno dopo ore sotto il sole. Diventavo rosso, quello si. Avevo gli occhi azzurri e i capelli ricci e neri che non si stavano mai dove gli dicevo di stare. Insomma, il gemello separato alla nascita di Will Smith. Il fratello brutto.

Ero giovane, avevo appena ventidue anni, eppure non mi ero goduto la mia età nemmeno per un secondo. La mattina la passavo a litigare con la mia ragazza, Brenda. Lei mi voleva più presente nella sua vita, io volevo soltanto dormire un po'. Lei voleva che mi sistemassi e che trovassi un lavoro decente, ma io non l'ascoltavo perché finalmente ero riuscito a prendere sonno. Poi lei usciva con la sua amica del cazzo, mi pare si chiamasse Jessica, o forse Jennifer, ed io mi facevo i cazzi miei. Mai vista questa Jessica. Questa Jennifer, si chiamava Jennifer, e nemmeno avevo intenzione di conoscerla. Non avevo tempo nè tanto meno la voglia.

La sera lavoravo in quella maledetta pizzeria, ed era tutto un avanti e indietro dalla cucina alla sala, dalla sala alla cucina. Odiavo l'odore dell'olio, odiavo le occhiate da cascamorto che mi mandavano le ragazzine così tanto coperte di trucco che sembravano fatte di cera, odiavo le urla del mio capo, che sembrava vivesse in quella pizzeria, odiavo quando i ragazzini facevano le feste di compleanno e non la smettevano più di urlare, odiavo la divisa che ero costretto a portare, odiavo tutto di quel posto. Ma mi faceva guadagnare quel minimo necessario per pagare l'affitto dell'appartamento che condividevo con Brenda.

La domenica invece, il mio unico giorno libero, la passavo dai miei genitori. Ero nato in una famiglia ricca, ma non volevo chiedere soldi a loro. Mi era stato insegnato ad essere autonomo, ed io lo ero davvero. Peccato però che la mia autonomia ostacolasse la mia salute mentale. Non che non amassi la mia ragazza, o che volessi dipendere dalle tasche dei miei genitori, e non che mi interessasse più di tanto delle condizioni di quell'ammasso di gelatina che gli scienziati chiamano cervello.

Volevo solo una tregua. Anzi, più che di una pausa, avevo bisogno di un cambiamento nella mia vita che oramai era diventata più che monotona. Era diventata una noia mortale. Era diventata una rottura di coglioni. Per me un giorno valeva l'altro ormai. Tanta merda oggi, tanta merda domani.

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