Capitolo Tre

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CAPITOLO TRE

Dal momento stesso in cui posai il cellulare sul tavolino, quella sera, iniziai ad accumulare quantità incommensurabili di rabbia e paura. Se da un lato, infatti, l’apparente indifferenza di Victoria al telefono mi aveva bloccato, quasi a dirmi di smettere di costruire castelli di sabbia su un amore che mai e poi mai sarebbe potuto nascere, dall’altro aveva acceso in me il grande desiderio di rivederla, di perdermi nuovamente nei suoi occhi. La odiavo e l’amavo al contempo, connubio di sentimenti che sino ad allora non avevo mai creduto possibile potessero coesistere.

Il mattino seguente, dunque, mi recai di buon ora alla libreria di mio nonno, saltando un’importante lezione del professor Dawson, ma di lei non ce ne fu traccia; così ci ritornai il giorno dopo e quello dopo ancora, sarei andato avanti all’infinito. La mia mente mi ripeteva di lasciarla perdere, lasciando le redini a mia madre, la quale avrebbe organizzato l’evento molto volentieri, però una forza indomabile scaturita dal mio cuore mi spingeva a continuare a sperare in qualcosa che di fatto non c’era e mai ci sarebbe stato. Trascorrevo le ore dando una mano a mio nonno, il quale sembrava felice di non stare solo, oppure giocando al telefono, o leggendo qualche vecchio libro che da anni non sfogliavo più. Ad ogni suono di campanelle mi mettevo sull’attenti, augurandomi di scorgere lei sull’uscio anziché qualche bambino con gli occhiali o qualche genitore impaziente e talvolta pure scorbutico. Fissavo, senza successo, la lancetta dei minuti intimandole di fermarsi affinché Victoria trovasse il tempo di venire oppure scarabocchiavo il suo nome su pagine intere di vecchi taccuini e registri impolverati, ma quell’agonia sembrava non voler mai terminare. Così, l’12 Novembre, giorno in cui finalmente lei si presentò alla libreria, ormai non ci speravo quasi più.

Stavo spolverando i vari oggetti che allestivano la zona horror, quando una voce seducente e familiare mi interruppe. « Harry? », fece. « C’é qualcuno? »

Tanto ero sovrappensiero e demoralizzato che non avevo sentito neppure il suono delle campanelle.

« Sono qui », dissi, « un momento e arrivo. » Non feci in tempo a posare il panno con cui stavo togliendo via la polvere, che lei era già alle mie spalle, bella e sorridente come sempre, avvolta in un lungo cappotto beige che le metteva in risalto le splendide forme.

Lei mi salutò con un inaspettato entusiasmo e poi mi ordinò di mettere via tutto che saremmo dovuti giungere in un’enoteca non lontana diversa da quella che aveva scelto precedentemente. Sorpreso (e in imbarazzato), corsi a chiamare mio nonno, che era nello stanzino sul retro, per poi salire sulla sua auto e farmi condurre al locale.

Il tragitto dalla libreria all’enoteca era di appena due chilometri e, considerato il traffico, ci impiegammo all’incirca dieci minuti. Nessuno dei due, per motivi ovviamente molto diversi, proferì parola e quel silenzio così intenso mi diede modo di riflettere.

Era così bella da incantarmi. Sembrava una bambola di porcellana, una di quelle da collezione che la gente compra solo per esporre in qualche vetrina. La guardavo con estrema ammirazione, come se fosse un dipinto famoso o un paesaggio mozzafiato; la guardavo con stupore come un bambino guarda quei signori travestiti da Babbo Natale che a Dicembre si incontrano sempre nei centri commerciali; la guardavo nello stesso modo in cui un fotografo osserva il sole tramontare sul mare o la neve imbiancare un curioso paesino di montagna il secondo prima di immortalare la scena. La guardavo con meraviglia, sì, ma anche con tristezza, perché consapevole del fatto che non l’avrei mai posseduta. Probabilmente lei si accorse del modo in cui la stavo osservando, quasi ossessivamente, oserei dire, e, ciò nonostante, non fece niente affinché io smettessi.

Amami, ti prego {Harry Styles & Larry Stylinson AU}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora