Capitolo 6

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Diario di Attilio Morandi

Venerdì 4 Dicembre 1942

E' con immenso dolore che mi accingo a riportare i fatti che si sono susseguiti nelle ultime ore. Non sono molto avvezzo alla scrittura, se non per tenere dietro ai conti ed agli ordini legati alla mia attività, pur tuttavia, sono fermamente convinto che sia necessario mettere nero su bianco quanto accaduto, non solo in qualità di testimonianza di fatti anomali ma anche per riordinare le idee.

Quest'oggi, poco dopo l'ora di pranzo, guardai fuori dalla finestra e vidi arrivare Jacopo dal limitare della foresta. Il tuttofare discese il piccolo campo di fronte al Bellavista a grandi passi, solcando lo spesso strato di neve depositatosi negli ultimi tre giorni come una fiera e possente rompighiaccio dei lontani Mari del Nord. In cuor mio, già sapevo di essere colui che quel vecchio strambo andava cercando e, questo fatto, mi rese fin da subito particolarmente agitato.

Sia ben chiaro, lo sarebbe stato chiunque. Quell'uomo altissimo aveva un qualcosa di ineffabile: incorniciati da una folta barba grigia, che arrivava ad abbracciare il visierino ormai consumato di un berretto da lavoro marrone, erano stati incastonati due profondi occhi neri, insondabili pozzi gemelli di nera pece.

Generalmente mi divertivo ad osservare come la sua comparsa riuscisse sempre a mettere a disagio il resto del personale o degli ospiti della locanda. Non che fosse una persona deprecabile o spiacevole tuttavia, si potrebbe quasi dire, fosse in grado di emanare una specie di aura, una strana sensazione di non adeguatezza.

"Mastro Attilio!" disse spalancando sgraziatamente la porta di ingresso.

Maria Giulia, la giovane cameriera, sussultò per un momento. Non fece nemmeno in tempo a finire di girarsi che il vecchio guardiano, individuato l'oggetto della sua ricerca alla finestra in fondo alla sala, aggirò la ragazza. Poco lontano, seduta al banco con la piccola Enrica, la signorina Savini si coprì meglio con lo scialle.

"Jacopo, porca miseria..." sospirai, indicando la porta che l'uomo aveva lasciato completamente aperta.

Il vecchio impiegò un paio di secondi per rendersi conto della svista. Poi tornò al motivo della sua improvvisata, non curante del legame tra la porta spalancata ed i brividi di freddo della nostra nobile ospite.

Tra ma e me, comunque, pensai che la porta aperta avrebbe aiutato a disperdere l'odore pungente che seguiva ogni sua visita. Per questa ragione, Elvira era stata categorica quando, due anni prima assumemmo il nuovo tuttofare: l'ingresso dalla porta principale era vietato. E si trattava di un ordine che Jacopo aveva sempre rispettato alla lettera.

"Attilio! Lascia perdere. Devi venire con me..." attaccò non appena mi si trovò di fronte, "Adesso!", aggiunse, incurvandosi come soleva fare.

Non si rendeva conto di quanto quelle sue invasioni dello spazio personale potessero risultare sgradevoli al suo interlocutore di turno.

Ma c'era qualcosa di insolito in lui. Non riuscivo a capire il motivo di tutta quella agitazione, quel suo modo di fare tanto diverso dal solito mi rese ancor più nervoso.

Cosa mai poteva volere da me di così urgente?, mi chiesi.

"Ma dove? Dove diavolo dovrei venire?" chiesi al tuttofare, "Che sta succedendo?"

Lui frugò nelle grandi tasche del suo pesante giaccone imbottito, imprecando, e ne tirò fuori un fagotto di stoffa macchiata delle dimensioni di un pugno che mi invitò ad esaminare con un paio di occhiate veloci. Pareva avesse avvolto qualcosa in una pezza o un fazzoletto.

Aprii con circospezione quelle che si rivelarono due pezzette di stoffa di diverse origini, assicurandomi che nessuno curiosasse, chiedendomi cosa mai sulla terra potesse, al contempo, stare in così poco posto e rendere così nervoso un uomo tanto pragmatico. Col senno di poi, non avrei voluto trovare alcuna risposta...

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