Capitolo I

270 13 16
                                    


Dal lat. tardo theorema, dal gr. theṓrēma 'meditazione', der. di theōréō 'vedo, osservo' • sec. XVI.



Affondò i denti nel collo, sulla corda del tendine tirata e sensibile. Sentì un sibilo che non era tutto dolore e la morsa sui suoi capelli si fece più dura, bruciante alla radice, pungente. Perfetta.

"Niente segni." Aveva ansimato nel suo orecchio, mordendolo per buona misura.

"Qual è il divertimento ..."

"Niente segni." Aveva quindi massaggiato il boccone di pelle tra i suoi denti, succhiando poi forte. I fianchi scattarono in avanti. "Miya." Era metà rimprovero e metà qualcos'altro e non voleva nemmeno pensarci. Il suono della voce pretendeva e lui non voleva altro che dare, dare, dare.

"Non chiamarmi così." Risalì lungo la colonna, una scia di canini e lingua lungo tutta la mandibola fino ad arrivare alla bocca lucida, gonfia, aperta. Sistemò meglio il ginocchio contro di lui, sentendolo premere e sospirare. "L'abbiamo già affrontato, Omi." Vide la punta della sua lingua tra le labbra e, Dio, voleva solo distruggerlo.

"Sta' zitto." Sibilò ad un soffio da lui. Lo schiacciò allora alla porta della camera, da dove non erano riusciti a muoversi da quando erano entrati, incespicando tra denti, mani e baci affamati. Aveva clavicole affilate e un piccolo neo che ne sporcava la simmetria, esposto e malizioso. Quella maglia era una presa in giro e l'avrebbe strappata alla prima occasione utile. Glielo disse, dritto nella bocca. "Costa più del tuo intero armadio, non ce li hai i soldi per ripagarla." Gli ansimò addosso, mordendogli il labbro e tirandolo verso di lui, abbassando i fianchi sulla sua gamba piegata e sfiorandogli deciso il cavallo con la coscia.

Atsumu inspirò forte, stringendo le palpebre al contatto improvviso, la testa che si riempiva di pesante foschia. "Chi ti ha detto che lo avrei fatto?" Riuscì a dire con voce graffiata, tagliando il filo di saliva che li collegava. Passò la mano sul petto dell'altro, toccando un capezzolo da sopra il tessuto leggero della maglia e rotolando il polpastrello con movimenti precisi, godendo dei piccoli respiri spezzati che uscivano ad ogni accenno di unghia. Era sensibile, non se lo aspettava.

Sakusa gli tirò indietro la testa con forza, costringendolo a guardarlo negli occhi. Erano grandi e liquidi e non capiva dove finiva la pupilla. Aveva le palpebre abbassate e pesanti, ciglia umide e voleva veramente mangiarlo. "Vogliamo concludere qualcosa o dobbiamo continuare a parlare?" Domandò con un sopracciglio alzato, l'espressione altezzosa rovinata dal rossore alto sulle guance e il respiro un attimo troppo forte, la bocca lucida e aperta. "Perché posso fare da solo in camera mia."

Atsumu gli infilò una mano nei jeans sbottonati, dritto nella biancheria e lo vide rantolare, spingendosi di scatto con i fianchi nel pugno e abbandonando la testa sulla sua spalla con un gemito spudorato. "Aw, Omi, la vodka ti fa arrapare." Sakusa lo morse forte e lui passò un pollice sulla punta, sentendolo bagnato e tremante. "Da quanto non scopi?"

"Da quando sono cazzi tuoi?" Ma stava muovendo il bacino a scatti secchi e non voleva finisse così. Quindi Atsumu tolse la mano, sfiorandolo per tutta la lunghezza e Sakusa lo guardò veramente veramente male, un gemito strozzato appena trattenuto tra i denti. "Non farlo." Sibilò con la bocca stretta.

"Non fare cosa?" Gli prese il sedere con entrambe le mani, affondando le dita sotto il rigonfiamento fasciato dai jeans e premendo forte, costringendolo ad aggrapparsi a lui, ad avvicinarsi di più, come se non fossero già schiacciati così tanto da rendere difficile anche respirare. "Non è tutto su di te, siamo in due qua."

TheoremDove le storie prendono vita. Scoprilo ora