Non proferiamo parola nel taxi, sulla via del ritorno. Fisso fuori dal finestrino.Guardalo. Guarda il mondo, sta ancora girando. Mi sembra di essere caduto. Sherlock tamburella con le dita sul ginocchio. È fuori dal taxi prima ancora che si sia fermato, e subito è nell’appartamento, correndo su per le scale. Poi è immerso nei suoi documenti. Li esamina, li butta via, li accatasta. Non ho idea di che cosa stia facendo.
Me ne resto semplicemente lì, in piedi. “Sherlock.” Non risponde. “Sherlock!”
“Non sono interessato ad analizzare il mio stato emotivo in questo momento, John, il che è chiaramente il tuo scopo.”
“E che mi dici del tuo stato fisico allora?”
Sbuffa. “Considerato ciò che mi è stato appena comunicato, cosa potrebbe mai avere importanza adesso?”
“Dobbiamo parlarne.”
“Parlare di cosa?” getta a terra un fascicolo e si volta ad affrontarmi. “Del fatto che mi resta un mese da vivere?” Le sue parole mi colpiscono come il tonfo sordo di una cannonata, alla base della mia spina dorsale. “Ho il sospetto che sia tu quello che ha bisogno di parlarne.”
“Va bene, si, è vero. Sherlock…”
“La mia unica preoccupazione è quanto a lungo potrò continuare con il mio lavoro, prima di non esserne più in grado.”
Sono incredulo. “Il tuo lavoro?”
Si ferma, finalmente, e mi guarda. “Dipendo da te per la verità John. Quindi, dimmi la verità adesso.”
Faccio un respiro profondo.Distacco. Lascia fluttuare via tutto il resto come un palloncino. Legalo a te così puoi riprenderlo più tardi.
“I tuoi mal di testa peggioreranno. Comincerai ad avere episodi di afasìa e difficoltà nel parlare. Il tuo equilibrio ne risentirà, presto non sarai più in grado di camminare o stare in piedi. La tua capacità cognitiva verrà intaccata e la tua vista comincerà ad offuscarsi. Ti assaliranno senso di nausea, vertigini, dolore e debolezza muscolare. Alla fine, perderai conoscenza.”
Lui annuisce. “Sei indubbiamente al corrente del fatto che i problemi di equilibrio e l’afasìa sono già cominciati.” Io annuisco di rimando. “Non ho alcun desiderio di sopportare tutto questo, John.” Il suo sguardo incontra il mio. Sembra calmo, ma io lo conosco come nessun altro, forse come nessuno lo abbia mai conosciuto in vita sua. E riesco a vedere, in questo preciso istante, che Sherlock è spaventato.
“E io non posso guardarti sopportare tutto questo.” Anche peggiore del pensiero di perderlo, è l’idea di restare a osservare mentre la sua mente si deteriora, vagamente cosciente di essere stata, una volta, speciale e incredibile, ma incapace di ricordarsi come e perché. Vedere la sua sconfinata energia intrappolata in un corpo che non può più obbedire ai suoi ordini, messa fuori gioco e ridotta a miseria dal tumore estraneo che continua a logorarlo nel profondo del suo cervello.
So quello che vuole. Dio mi aiuti, è un sollievo. “Mi prenderò cura di te.”
La sua espressione si addolcisce per un attimo. “So che lo farai.” E l’attimo dopo la sua granitica compostezza è tornata. “Niente iniezioni.” Rimango perplesso per un momento. “Ma sarebbe il modo più semplice.”
“Non voglio che ricadano sospetti su di te. Deve essere credibile che abbia fatto tutto da solo. Esistono delle pillole?”
“Si. Ma ci vorrà un po’ più di tempo. Mezz’ora almeno. Ma sarà indolore.”
“Bene. Procurati le pillole, e vedremo il da farsi giorno per giorno. Continuerò con il mio lavoro e tu non dirai a nessuno delle mie condizioni, capito?”
Capisco. Capisco che non posso obbedire a questa richiesta e lui sa che io non posso, ma che tutti preserveremo comunque la delicata finzione del non sapere. “Va bene.”
“Decideremo quando sarà il momento. Chiunque voglia vedermi, suppongo dovrei lasciarlo fare, ma trascorrerò l’ultimo giorno da solo.”
Mi si chiude la gola. “Da solo?”
“Si. Per cui spero che riuscirai a esimerti dall’ambulatorio quel giorno. Anche se con poco preavviso.”
Il sollievo mi inonda. “Ah. Sono certo che capiranno.”
Lui avverte qualcosa nella mia voce, e muove un passo verso di me. “John, quando ho detto ‘da solo’, quello che intendevo era…” Si schiarisce la gola. “Insomma, spero sia accettabile per te.”
Accettabile. Il mio migliore amico mi ha appena informato che vorrebbe trascorrere il suo ultimo giorno sulla terra da solo con me. Non c’è niente in tutto ciò che possa anche lontanamente definirsi accettabile.
La mia mente non ha ancora realizzato che lui sta per andarsene. Riesco a malapena a ricordare la mia vita senza di lui. Si è sottilmente inserito in tutti i miei ricordi, come se fosse stato lì tutto il tempo. È lì in Afghanistan, seduto sulla branda accanto, che commenta gli altri soldati, infastidendomi mentre provo a ricucire le ferite di qualcuno. È al St. Barth, interrompendomi mentre studio per trascinarmi all’obitorio, a casa, nel parco in cui ero solito giocare quando ero bambino.
Resto lì, nel nostro soggiorno, e lo osservo tornare ai suoi fascicoli. A un certo punto, durante questi ultimi due anni, lui ed io siamo diventati un ibrido. Sherlock-e-John. L’innesto è stato così totale che persino quando siamo separati, per giorni o settimane come è a volte capitato, io riesco comunque a sentire il filo invisibile che mi unisce a lui. Per un momento, sono arrabbiato. Perché non sarà lui a dover recidere metà di se stesso e tornare ad essere un’entità sola. John-e-[ricorretto]. Il filo rimarrà tuttavia. Io porterò per sempre la cicatrice nel profondo, che mi ricorderà cosa ho perduto.
Ci presentiamo agli altri come coinquilini. Quello che realmente intendiamo è che siamo amici. La gente ogni tanto presume che siamo amanti. Nessuna di queste descrizioni è davvero accurata. Non sono sicuro che esista una parola nella nostra lingua per descrivere ciò che siamo. Harry una volta ci definì “compagni eterosessuali per la vita”. A Sherlock piacque. Lo fece ridere. Io non so se neanche quello riesca a spiegare pienamente cosa siamo. Siamo semplicemente – insomma, siamo semplicemente noi.
Tutto quello che so è che si è spalancata una profonda voragine nel mio petto e sta diventando sempre più grande e cupa e tra un istante mi inghiottirà e io non posso permettere che lui assista a questo. “Ho bisogno di uscire per un po’,” dico. Il mio senso di colpa nel lasciarlo solo dopo la notizia appena ricevuta è mitigato dalla consapevolezza che lui preferirebbe restare da solo che aver a che fare con qualunque emozione io debba esprimere al momento.
Mi risponde con un breve cenno del capo. “A più tardi”.
Mi volto e mi precipito rumorosamente giù per le scale. Sento lo stomaco che si contrae in una morsa. Sono costretto ad appoggiarmi alla parete per un momento. Non so come riesco a raggiungere la strada e fermare un taxi.
Riesco a contenermi fin quando non arrivo a casa di Sarah. Un’altra relazione della mia vita che rifiuta una precisa classificazione. Fidanzata? No. Amica? Si, ma anche qualcosa di più. Compagna di scopate? Di tanto in tanto. Queste definizioni potrebbero essere adatte, se non fosse per il fatto che lei è più al corrente di quello che succede tra me e Sherlock di chiunque altro. Lei sa del filo, del legame. È stato proprio quello a rendere impossibile che tra di noi ci fosse quello per cui avevamo sperato all’inizio, ma allo stesso tempo non siamo riusciti a ripiegare su una semplice classica amicizia. Perciò aleggiamo qui, nella terra dell’indefinito. Lei frequenta altri uomini. Io ho solo Sherlock.
Nota l’ espressione sul mio volto e mi accoglie in casa. “Cos’è successo?”
Sto tremando. “Sherlock.”
“Che ha combinato adesso?”
“Si è ritrovato un maledetto tumore al cervello.”
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Alone on the water [ITA]
FanfictionFanfiction di Mad_Lori con traduzione a cura di Charles (fonte EFPfanfic.net). "Sherlock aveva sempre saputo di non avere una vita lunga davanti a sé, ma non credeva che sarebbe finita così."