1. MI CHIAMO MARTINA

84 5 5
                                    

Sono al Medusa alla cena di classe di fine anno. Le mie compagne pensano di concludere la serata andando a ballare all'Hennessy e buttano giù vodka e Martini a go-go come se non ci fosse un domani. Si divertono, ridono e sculettano sotto le loro minigonne davanti ai tavoli dei ragazzi, in netta minoranza, che soddisfatti aspettano di rimorchiare. Che poracci! Sono pieni di alcool anche loro. Mi viene già il vomito. Mi alzo nel bel mezzo dei festeggiamenti e vado in bagno, infilo due dita in gola e non ci vuole molto affinché tutto lo schifo che ho dentro lo butti fuori dal mio corpo, che non sento mio, che non amo, anzi che odio. Mi guardo allo specchio: il ventre si è immediatamente sgonfiato e i miei occhi sono diventati lucidi e rossi per via dello sforzo, così mi sciacquo velocemente la faccia e la tampono con dei fazzoletti per asciugarla, cerco il mio rossetto rosso nella borsa <Ma dove diamine sei Chanel?!> In preda a qualche attimo di panico, esamino attenta ogni angolo e taschino <Eccolo! Il mio Coco Rouge!> Sorrido soddisfatta. Il rosso nasconde tutto, anche il mio pallore. Lo passo due volte sulle labbra in senso circolare, le strofino su e giù e lo tampono anche un po' sulle guance a mo'di Heidi. Svuotata, mi sento molto meglio, alleggerita: oggi è una giornata speciale e voglio esserne all'altezza. Se in questo momento mi pesassi so per certo che sarei ferma nei miei quarantasette chili, il bottone dei jeans che adesso riesco a chiudere ne è il testimone. Ho terminato il quinto anno del liceo classico con il massimo dei voti: cento su cento. Mia mamma ne sarà orgogliosa, ma il mio pensiero è rivolto al provino di lunedì per la pubblicità di Dior e voglio essere in forma.
Mi chiamo Martina e ho diciotto anni. Ma per conoscere la mia storia bisogna fare qualche passo indietro.

<Metti un po' di rossetto rosso! Vedrai che nessuno si accorgerà di niente!> Lo dice sempre Bice. L'ha detto anche mentre si truccava in bagno il giorno del funerale del nonno. Ho come un'istantanea in testa di lei che faceva giri di colore sulle labbra per ogni lacrima che le rigava il volto, come se potesse, in qualche modo, arrestarne il percorso spazzando via il dolore che la devastava <Ecco... basta un po' di rossetto rosso!> Ricordo che andai nella loro camera. C'era un silenzio assordante. Era tutto in ordine, le tende perfettamente raccolte, la foto del loro matrimonio alla parete e quella del loro viaggio di nozze a Venezia sul comò, segni di una vita insieme... il profumo di zagara del dopobarba del nonno e le sue ciabatte accanto al letto, ora vuoto, perfetto, con le lenzuola bianche e distese, lo stesso letto dove era rimasto paralizzato per mesi, sofferente, e in cui io, da piccina, mi rifugiavo la sera prima di dormire per farmi raccontare una fiaba. Lui era il papà che non ho mai avuto. Anzi, no: lui era papà. Era lui che mi portava all'asilo, era lui che mi insegnava le tabelline alle elementari, era lui che mi accompagnava a danza, era lui che mi faceva cantare, era lui che mi aiutava a disegnare, era lui che mi diceva di non smettere mai di sognare, era lui che mi faceva ridere con le sue barzellette, i suoi scherzi, quel suo magnifico modo di imitare Totò, ed era sempre lui che con quel suo costante buonumore riuscì a mascherare il suo malessere quando il cancro lo portò via con sè. Non ho mai visto nonno arrabbiato e non ho mai visto nonno triste ma è stato lui che, lasciandomi, mi ha fatto conoscere la rabbia e la tristezza perché da allora io non rido più.
La gente sa essere cattiva anche nei momenti più delicati di una persona. Per distogliere l'attenzione dal gonfiore dei miei occhi ed evitare la compassione, indosso un paio di occhiali scuri e metto un po' di rossetto rosso, come mi ha insegnato Bice. Nascondo il dolore. Ma gli sguardi riescono a ferire più delle parole e al funerale riesco a leggere i loro pensieri "Ma come si è conciata!" "Che coraggio! L'è mancato il nonno e lei si propone così?!" "Che poco di buono!". Diventa tutto più semplice. L'azzardo del mio Chanel Coco Rouge fa il suo dovere e nessuno vede più la sofferenza della mia anima che è solo esclusivamente e interamente mia. Qualsiasi sia l'occasione, la soluzione della nonna è sempre quella <Tieni, mettine un po' anche tu, così nascondi quel pallore e sembri un po' più ordinata!>, cosa intendesse dire lei per "ordinata" ancora oggi non mi è chiaro, e accovacciandosi accanto a me mi aiutava con dimestichezza a tingermi le labbra <Prima sopra e poi sotto> con le mani tenevo lo specchio davanti la mia faccia sciapita mentre lei mi aiutava nei movimenti e mi pitturava la bocca <ora fai così> guardavo e imitavo attentamente le sue labbra che si strofinavano l'una contro l'altra <Vedi come stai meglio?> Mentre fissavo il rosso acceso sul mio viso, lei con due dita tamponava il colore. Da quel momento nascondere è diventato il mio rito. Quando metto il rossetto rosso io non esisto più.

Mettevo il rossetto rossoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora