Capitolo 2

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Davide

Iniziai a fissarla involontariamente mentre tornavo dai miei amici.
Lei ancora era là, accanto a Francesca che non toglieva un attimo gli occhi dal cellulare.
Anche lei mi stava guardando.
Accennai un sorriso e la scrutai con gli occhi, sicuramente non passavano inosservate le sue labbra carnose e i suoi zigomi pronunciati. 
Mi fissava con quei tremendi occhi azzurri, interessante, cosa stava notando in me? 
Spostò lo sguardo ed io chinai gli occhi, come non notare le sue curve? La vita così stretta, il seno timido... beh non aveva una quarta, ma le si addiceva molto. Mordendomi il labbro cercai di sporgermi per guardare il suo sedere, non volevo sembrare invadente, ma avevo bisogno di farmi un giro di lei a 360°.
Quei jeans stretti le stavano da Dio, risaltavano tutte le sue forme.
Nella mia mente era già sdraiata sul mio letto a pancia in giù, con il suo sedere nudo e contornato dal perizoma. Mi stava facendo uno strano effetto rivederla, tanto da sentirmi quasi in imbarazzo.
Distraevo i miei occhi guardando altrove, ma con la coda di essi continuavo a fissarla.
Avevo in mente quella scena di lei che mentre parlavamo spostava leggermente i suoi riccioli brunetti dietro l'orecchio come sinonimo di disagio, non la ricordavo così, non era affatto così.
Dopo aver finito la mia attenta osservazione smisi di voltarmi.
«Che dici Davide, com'è Sophie?», domandò Leonardo, solito a curiosare sulle ragazze con cui parlo.
«Beh... sicuramente è cresciuta!», risposi con un accento di malizia ed in mente ancora quegli occhi da cerbiatta che guardavano dentro i miei.
«Che vuoi fare? Te la vuoi scopare?».
Emise una fastidiosa risata di cattiveria, voleva portarsela a letto e si vedeva da come i suoi occhi la mangiassero da lontano, come un avvoltoio che non vedeva l'ora di acciuffare quella docile, ma gustosa, preda dal sangue puro.
«Mi piace», ammisi sfregandomi il mento e mi voltai ancora una volta per guardarla.
«Piace anche a me però», puntualizzò Leonardo.
«Ma sta' zitto verginello», lo derisi spingendolo.
«Le ragazze per me fanno la fila! Se adesso volessi mi andrei a prendere anche Sofia», affermò compiaciuto, fiero di ciò che aveva detto.
Io e Valerio ci scambiammo uno sguardo d'intesa, Leonardo amava vantarsi, se solo fosse stato vero ciò che aveva detto probabilmente sarebbe stato odioso.
«Ma smettila! Ma se l'unica ragazza con cui ti sei frequentato era lesbica e ti ha piantato in asso per una ragazza. Io almeno qualche storiella l'ho avuta», rispose Valerio divertito, mentre cingeva la sua Iqos blu, che ogni volta ci soffocava con quella nauseante puzza di merda.
Valerio era molto selettivo quando si trattava di ragazze e non era mai stato con la prima che capitava solo per l'impulso animale di soddisfare i suoi bisogni. Salvo quelle eccezioni da regola in cui era così ubriaco d'aver fatto l'errore madornale di scoparsi qualche cessa senza denti, ma quelli erano peccati che aveva confessato solo a me.
«Davide, che pensi?» mi domandò Valerio.
«Che la milanesina mi piace e che secondo me l'ho già conquistata», sostenni a braccia conserte ed un sorriso chiuso che andava sul lato della guancia, accompagnato da un ostentato senso di superiorità.
«Da cosa lo deduci ? Io invece ti dico che ti darà del filo da torcere. La ricciolina è abituata ai ragazzi raffinati di Milano», accurò Valerio stirando le sopracciglia e lanciandomi una sfida in cui, secondo lui, mi sarei dovuto tirare indietro perché avevo perso già in partenza.
«Lo vedo che mi mangia con gli occhi. Comunque, lo vedremo!», contestai stirando gli occhi.
Mi alzai dalla panchina in cui ero seduto e, mentre mi allontanavo, una frase sfiorò le mie orecchie:
«Stai attento a non innamorarti però!».
Era strano che Valerio mi avesse sottolineato una cosa in cui non avevo mai rischiato, sapeva il mio rapporto d'odio con l'amore e soprattutto conosceva la mia idea ipocrita sulla sua esistenza, ma per evidenziarla, lui aveva visto qualcosa che era andato oltre i miei occhi. Arrivato a casa sentii i gemiti di mia madre, qualcosa non andava, così corsi da lei.
«Mamma! Che succede?!», le domandai tremante. Mi accorsi che era seduta sul pavimento mattonato, poggiata con la schiena sugli sportelli in legno della cucina. «Tu... tuo..».
Non riusciva a completare la frase, era pallida in viso e nelle mani, strizzava forte gli occhi e con il dorso della mano cercava di asciugare le lacrime; il cuore mi stava per uscire dal petto, sentivo le gambe cedere e le goccioline di sudore che mi bagnavano il viso. «Mamma... », le ripetei restando immobile davanti a lei, con la stanza che divenne piano piano sempre più scura ai miei occhi, perché il mio cervello si era concentrato solo su di lei e sull'attacco di panico che mi aveva appena trasmesso.
Le gambe intorpidite nel vedere mia madre seduta a terra, con le mani che sorreggevano la testa e le ginocchia al petto, mi avevano riportato a uno dei traumi causati da mio padre.
In una sera d'inverno, quando le strade brinano, pullulano di silenzio tombale e freddo da rischiare l'ipotermia anche ben coperti, papà tornò ubriaco, come era solito fare. Quella volta, però, aveva il viso livido e i vestiti stracciati, era più alta la probabilità che quella sera spuntasse Babbo Natale piuttosto che, quell'uomo di cui ero figlio, non si fosse cercato una lite da bar o che non avesse bevuto fino a farsi buttare fuori a calci. Anziché scagliarsi sul divano in preda agli effetti dell'alcol iniziò a cercare in dei cassetti del salotto che mia mamma ci aveva espressamente chiesto di non aprire.
Io, che mi trovavo in cucina per prendere un bicchiere d'acqua, mi sporsi vicino la fessura della porta e iniziai a guardarlo.
Tirò fuori da quei cassetti delle siringhe e una boccettina contenente un liquido nerastro.
Svitò il tappo e alcune goccioline di quella sostanza gli rimasero appiccicate sulle dita, che maledì subito dopo. Bramiva come un animale selvatico, fra quel farfuglio si udivano bestemmie.
Prese poi un cucchiaio trovato nel medesimo cassetto, lo avvicinò al camino facendolo così riscaldare, versò quella massa appiccicosa simile al catrame e gli mischiò un altro liquido.
Non riuscivo a capire cosa stesse facendo, mi sembravano azioni prive di filo logico. Il tutto era così inquietante, la sua espressione compiaciuta mentre guardava il liquido sciogliersi, il viso illuminato dalle fiamme del camino e la sua ombra gigante sul muro a fargli da cornice mi terrorizzava, ma allo stesso tempo, la curiosità era troppo forte, tanto da restare ancora lì a fissarlo.
Aspettò qualche secondo e con la siringa risucchiò quella strana sostanza, all'inizio mi sembrava sciroppo, ma mi sbagliavo.
Seduto sul divano si legò il braccio con un laccio, strinse forte fino a fermare la circolazione e ad intravedere le vene che solcavano la pelle apparentemente ruvida, già con delle macchie violacee ben evidenti.
Con le dita picchiettò due volte il dorso della siringa poi distese l'avambraccio e lasciò entrare l'ago facendo scorrere il liquido dentro le vene, permettendogli d'invadere il corpo.
Emise dei versi di piacere, allargò la bocca sorridente ed inarcò le guance da barbone, soddisfatto di ciò che aveva appena fatto; poi con un sospiro poggiò la testa sulla spalliera del divano e slegò il laccio, tenendo però ancora la siringa in mano.
Ero stranito, come poteva dargli piacere una medicina? Girò la testa con gli occhi chiusi e lì avvenne il mio primo, maledettissimo sussulto, che mi riempì di colpo i polmoni per il fiato tirato in fretta. Se non mi fossi spaventato e se non mi fosse uscita di scatto la mia vocina bianca terrorizzata, non avrebbe mai aperto gli occhi ed io avrei evitato quell'incubo sveglio.
Ma di fatto, com'era stato già scritto dalla mano di quel beffardo del mio destino, mio padre aprì i suoi grandi occhi rossi e vide il mio volto dallo spiraglio della porta. «Che ci fai sveglio a quest'ora?», mi schernì indignato. «I... io avevo sete e sono sceso a bere», balbettai terrorizzato e con gli occhi spalancati, immobile, davanti ad un demone.
«Non avresti dovuto vedermi in queste condizioni!». Iniziarono a fuoriuscirgli le vene dal collo, sembrava che gli stessero quasi per scoppiare, digrignò i denti e corse verso di me afferrandomi per il braccio.
Cercai di aggrapparmi a qualche superficie per resistere alla sua presa, afferrai la maniglia della porta e posi resistenza, ma fu tutto inutile, le mie braccia esili ressero meno di quanto mi aspettavo, la sua forza mi trascinò come un uragano.
«Non mi fare male!», gli urlai in preda alla disperazione.
In un attimo mi ritrovai seduto sul divano, con il suo dito pieno di rughe che mi imponeva di stare fermo. Prese una penna bic e la ruppe, poi estrasse l'ago dalla siringa che aveva in mano. Iniziò a fuoriuscire l'inchiostro dalla penna, intinse l'ago su di esso e bofonchiò:
«Sai, quando ero arruolato nell'esercito, ai ragazzini disubbidienti come te venivano imposte delle punizioni a causa del loro comportamento irrispettoso verso le persone più grandi», aggrottò le sopracciglia ed aggiunse:
«Questa è la tua punizione per avermi disubbidito!». Mi afferrò il braccio e iniziò a pungermi con l'ago inzuppato d'inchiostro.
Inutile dire che mi stesse facendo un male straziante, che si rinnovava ogni secondo, ogni millesimo di secondo. 
«Basta, ti prego!», gridai strappandomi le corde vocali e con gli occhi stracolmi di lacrime
«E perché? Ti ho visto così incuriosito che pensavo volessi provare anche tu quello che stavo provando io! Ora siamo uguali, entrambi con buchi sulle braccia! Non vuoi assomigliare al tuo caro papà?».
Era insolitamente divertito nella voce e sorridente in viso.  
Il suo intento era quello di lasciarmi tatuati dei puntini neri, come se di lì fosse passato più volte l'ago di una siringa, esattamente come lui, per assomigliarci diceva, solo che lui aveva le braccia segnate dall'eroina, io per un gioco contorto al fine di sfogare l'ira che regnava in quel buco che aveva nel petto al posto del cuore. Le mie urla svegliarono mia madre che di corsa arrivò in cucina.
«Cosa sta succedendo?!»
«Mamma!», esclamai con un filo di sollievo, mio padre mi lasciò il braccio e io corsi verso lei.
Con i pollici asciugò le mie lacrime che non smettevano di fuoriuscire, poi mi sussurrò:
«Shh... vai in camera e dimentica tutto, è stato solo un brutto sogno».
Volevo essere ripagato per il male che mi aveva causato, volevo poter fare qualcosa.
Il mio cuore spezzato che batteva per i singhiozzi aveva bisogno di giustizia, ma quella sera, nessuno ebbe ciò che si meritava.
Ero solo un bambino, che al posto di avere le braccia sporche di sangue e inchiostro avrebbe dovuto averle sporche di fango, per aver giocato troppe ore fuori a calcio con gli amici.
Ascoltai le parole di mamma, chinai il capo e mi diressi verso la mia camera.
Mentre salivo le scale sentii mio padre che discuteva con mia madre.
«Ci stavamo solo divertendo un po'».
«Per stasera il divertimento finisce qui!», rispose mia madre con tono sbalorditivamente tranquillo.
«Non credo proprio, il divertimento è appena iniziato, dato che il ragazzino è andato via tocca a te farmi divertire!»
«Basta che non fai rumore, i bambini devono dormire». «Abbassati e fammi vedere che sai fare con quella boccuccia» continuò eccitato.
Quella notte rimasi sveglio, seduto sul mio letto, a fissare il muro, stringendo forte il braccio per soffocare il dolore e aspettando il sole, per mandare via i mostri della notte.
«Mi è arrivata una chiamata anonima, era tuo padre!», esclamò mia madre, interrompendo il mio ricordo.
Restai qualche secondo con il fiato sospeso e poi risposi:
«Sei sicura che era lui? Non può essere! È in carcere!». Ancora non riuscivo a credere a ciò che le mie orecchie avessero sentito
«È riuscito a cavarsela, il suo avvocato gli ha fatto ottenere gli arresti domiciliari, ma uscirà molto presto...». Iniziò a singhiozzare sempre più forte, non riusciva a trattenere le lacrime; a me cadde il mondo addosso, l'incubo stava tornando.
Quando finalmente eravamo riusciti a vedere la luce in fondo al tunnel, quando le ferite sembravano stessero per sanare, una notizia più brutta, a stravolgere la normalità che stavamo creando, non poteva arrivare. Finalmente mia madre aveva terminato le sedute dal terapista e la notte, in casa mia, non era più un luogo dove sentirsi soli al mondo, ma finalmente un posto dove stare bene, anche se le mura, per me, risuonavano ancora delle urla d'odio di mio padre.
Grazie all'aiuto di mia zia Eva, mia madre era riuscita a sporgere denuncia.
«Verrà denunciato per violenza sessuale, maltrattamenti dentro il nucleo familiare, uso e detenzione di sostanze stupefacenti. Il consumatore fa uso di circa 250 mg di eroina giornalieri, uso di altri tipi di droghe pesanti...», queste furono le parole dette dall'avvocato a mia madre e aggiunse: «Non si preoccupi signora, verrà punito, solo la violenza sessuale prevede dai 6 ai 12 anni di carcere e visto i reati compiuti dal signor De Angelis... beh, può stare tranquilla».
Ma non servì, mio padre si trovò da solo il motivo per andarsene di casa. Era finito in carcere per furto.
Non sapevo come fossero andate le cose, ma sapevo che, quel giorno, la fortuna giocò a nostro favore.
"Grazie a Dio!" Ripeteva mia madre quella mattina di primavera, dove gli alberi fiorivano ed il freddo abbandonava i nostri corpi, ormai in bilico tra la depressione e il suicidio.
No, io non credevo fosse stato Dio, cazzo l'avevo pregato così tante volte e, alla fine, si era fatto vivo solo quel giorno? Dov'era tutte le volte che le nostre anime chiedevano pietà? 
E dovevo ammetterlo, il mio scetticismo non comprendeva solo l'amore, ma anche la religione. Secondo quel che era il mio parere, gli uomini avevano inventato qualcuno su cui credere, per dargli colpe che nessuno si voleva assumere o per credere in qualcosa quando tutto andava a puttane.
E di fatto, non era stato Dio ad entrare in casa nostra quel giorno, ma i carabinieri.
Da lì non lo vidi più, sapevo che aveva un'altra casa a Roma... un monolocale, e che probabilmente scontata la pena sarebbe andato a vivere lì; per il resto non mi sono mai informato, a me interessava che se ne stesse più lontano possibile da noi.
Ma, a quanto pare, la lontananza, non durò quanto mi aspettavo.
«Okay okay, adesso calmati!», dissi prendendole il viso e continuai: 
«Mamma! Guardami! Noi riusciremo a superare anche questa, tu non temere, ok?». Mi sedetti accanto a lei abbracciandola, lei ricambiò il gesto d'affetto, tremava, tremava forte, era impaurita e, sinceramente, lo ero anch'io.
«Adesso possiamo intervenire con l'avvocato!», esclamai, ma non mi lasciò finire la frase:
«L'avvocato... ci ha raccontato solo un mucchio di stronzate, non ha mosso mai neanche un dito. Se non fosse stato per il miracolo che successe, quell'uomo sarebbe ancora dentro casa. Era solo un manipolatore, bravo con i giochi di parole e a vendere false speranze a buon mercato».
«Non diciamo niente alle tue sorelle per adesso, ok?», continuò 
«Per ora no, tranquilla».
«Non so proprio come dovrei dirlo a Franc...».
All'improvviso sentimmo la porta d'ingresso aprirsi.
«Mamma! Sono a casa!», gridò Gemma, mia sorella maggiore.
«Sì tesoro! Arrivo!», rispose mia madre che in fretta si alzò in piedi dirigendosi verso il lavandino per sciacquarsi il viso.
Mi alzai anch'io.
«Ho fatto la spesa. Sto venendo in cucina a portartela» disse mia sorella, aprì la porta e continuò: «Qui c'è il pan... ma che succede? Tutto bene?».
Sbatteva velocemente i suoi occhi color miele, come se stesse cercando di capire se si trattasse di un'allucinazione.
«Certo amore!» rispose mia madre con gli occhi ancora un po' rossi.
«Davide sembra in lutto».
Mi indicò ed io la fissai qualche secondo con lo sguardo vuoto, mentre nella mia testa stavo cercando di mettere a fuoco le parole di mia madre, riordinando contemporaneamente i ricordi; poi mi resi conto di aver assunto un'espressione troppo seria, così le spiegai:
«Mmh... è che... mi sono lasciato!», sollevai le spalle facendole intuire che la mia espressione era dettata dal fatto che ero triste perché avevo rotto con la ragazza. «Ah... ok, mi dispiace...»
«Vado in camera mia». Appena terminata la frase, velocemente, uscii dalla stanza.
Arrivato in camera chiusi la porta e mi distesi sul letto, con il viso rivolto al soffitto e con la testa piena di dubbi mi addormentai.
«Davide! Davide!», una voce mi svegliò. 
«Sì?», risposi con la saliva che mi colava al lato della bocca.
«Davide! I tuoi amici ti chiamano da un bel po'!»
«Ma chi sei?»
«Coglione sono tua sorella, apri gli occhi!»
«Francesca? Ma che ore sono?», domandai assonnato. Riuscii aprire gli occhi malgrado la luce gialla del lampadario che andava dritta nelle pupille.
Sentii mia sorella che mi scuoteva ed il suo tono stridulo nelle orecchie.
«Sono le 22:00! I tuoi amici mi hanno fatto duemila chiamate dicendomi di svegliarti».
«Cazzo! Devo uscire!».
Lesto scesi dal letto e iniziai a cercare i vestiti da mettermi.
«Va tutto bene? Guarda che lei ci sta davvero male», disse mia sorella dispiaciuta.
Se ne stava lì, in cerca di risposte e con tentativi vani di sondare la mia mente.
«Sì sì, sto bene, però ora esci dalla mia camera, mi devo sbrigare!»
«Ti volevo solo dire che se ne vuoi parlare io ci sono e che... spero facciate pace. Vi amate Davide, non scappare».
«Finito con i discorsi filosofici? Io non amo nessuno e non ho mai amato nessuno! E poi ti sembro uno che scappa?».
La spinsi fuori mentre, a petto nudo, prendevo la maglietta che pendeva dalla sedia.
«Ok! Sto uscendo!».
In realtà ci aveva preso, non sul fatto che l'amassi, ma che se fosse stato vero avrei mandato tutto a puttane. Nessuno doveva avere il potere di farmi del male. Svelto mi tirai su i Levi's e mi sedetti sul letto per allacciare le Air Force.
Sistemai i capelli allo specchio e, mentre correvo per le scale, sfilai la giacca dall'appendiabiti.
«Aspetta! Non chiudere! Sto uscendo anch'io!», mi urlò mia sorella che quasi per la troppa fretta stava cadendo dalle scale.
Uscimmo insieme e, mentre lei era già arrivata al cancelletto, io stavo ancora tirando la porta d'ingresso con il clacson di Valerio che mi strillava nelle orecchie. Salii nella nuova macchina nera lucida di Valerio e notai già per prima cosa la sua espressione orgogliosa, erano secoli che la voleva.
«Ti piace la mia nuova bimba?», domandò
«Bella», risposi tastando con le mani il bordo del sedile.
Interni neri in pelle, si sentiva il forte odore di nuovo mischiato a quel profumo tipico di un autoconcessionario, ancora per poco regnava un pulito impeccabile.
«Questa me la sono comprato con i miei soldi»
«Ma quanto ti pagano per fare il fattorino delle pizze?».
Lo guardai stranito, qualcosa non mi tornava.
«Ma quale fattorino! Mi sono licenziato. Sto facendo i soldi veri. Mi hanno offerto un lavoro e non ho rifiutato, c'è lavoro anche per te se ne hai bisogno, so che state attraversando un periodo brutto...».
Abbassando la musica aggiunse:
«Io ti posso aiutare Davide».
Parlare dei miei problemi economici mi fece irrigidire, con tono serio risposi:
«Non ti preoccupare, non ho bisogno dell'aiuto di nessuno e soprattutto non ho bisogno di questo tipo d'aiuto, sono troppo sveglio per ste cose».
Se con il mio sguardo avessi potuto fulminarlo probabilmente già sarebbe stato folgorato.
«Non t'incazzare! Ti ho fatto solo una proposta, ognuno è libero di fare ciò che vuole e io con i miei soldi mi sto comprando tutto quello che mi sarei potuto solo sognare! Guarda qui! Maglia Marcelo Burlon originale!».
Gli sorrisi e alzai la musica tagliando definitivamente il discorso.
Giunti in piazzetta trovai Leonardo e Raffaele con due bottiglie di gin.
Valerio uscì dalla tasca l'erba, il grinder, un pacco di rizla e le sigarette.
«Tieni Davide pensaci tu, io devo bere», disse Valerio.
Presi il necessario e iniziai la mia opera d'arte.
«Complimenti per la macchina Valè, Audi?», chiese Leonardo
«Audi A3, ultimo modello», rispose Valerio accennando un sorriso
«Cazzo bro, sei ricco allora »
«Il lavoro ha semplicemente dato i suoi frutti».
Quelle parole presuntuose di Valerio mi risuonavano così forte nelle orecchie che mi stavano facendo venire la nausea, come se stesse facendo un'azione per il bene dei suoi familiari, non stava neanche tanto male economicamente.
«Hey ragazzi! Avete cartine?», domandò un ragazzo che veniva verso di noi.
Alzai lo sguardo e strizzando gli occhi riuscii a mettere a fuoco, era Federico, un mio compagno di classe ed ex amico di mille avventure. Lui non usciva con noi, ma con Edoardo, per farla breve, un coglione.
Federico sembrava un ragazzo timido, in realtà era un ruolo che era riuscito ad interpretare bene, con quella maschera dal viso pulito incollata sulla faccia, quasi non si vedeva lo stacco tra la plastica e la sua vera pelle
«Certo Fede, tieni!» gli risposi allungando il braccio con le cartine.
«Grazie Davide!»
Non avevo mai capito il suo rinnegamento al passato, era come se tutto quello che avessimo passato insieme, la sua mente, l'aveva rimossa ed io non fossi rimasto altro che un vecchio amico d'uscita.
«Sei tornato da poco?»
«Si, proprio ieri».
Mi restituì le rizla e ci salutammo affettuosamente.
Dopo aver portato le cartine dai suoi compagni si diresse verso le amiche di mia sorella.
Lo vedevo avvicinarsi a Francesca, così lo seguii con gli occhi.
La gelosia era un nodo in gola, mi faceva solleticare le mani dalla rabbia, soprattutto quando si trattava delle mie sorelle, nessuno si doveva avvicinare, uscivo fuori di testa.
Notai che però fu Sophie a correre verso di lui abbracciandolo, in modo anche troppo amichevole.
Federico aveva dichiarato d'esser gay, ma per me non era così.
Non dimenticherò mai quello spezzone di ricordo. Eravamo entrambi ubriachi, ad un festino privato a casa di non ricordo chi, era il periodo in cui eravamo più amici che mai. Eravamo chiusi in bagno, io, lui e due ragazze, anche loro avevano bevuto un po'troppo. Io ero seduto sul pavimento con la moretta che mi baciava il collo e lui lì, dentro la vasca con la biondina, a farsi fare le peggior porcate con la lingua e godeva, godeva precisamente come me.
Il mio unico momento di lucidità lo passai a vedere la sua faccia soddisfatta per esser stato con una ragazza.
Poi fu tutto sfogato, non ricordavo neanche come fossi tornato a casa; e dei terribili, dolorosissimi, buchi in testa che sentivo rimbombare.
Il giorno dopo incuriosito non potevo non chiederglielo, ma lui si negò tutto ed era vero, io ero ubriaco, ma sapevo bene ciò che avevo visto e il suo allontanamento da me, non fu solo a causa di Valerio, ma perché forse avevo visto fin troppo.
Quei suoi baci falsi che lasciava sul viso di Sophie mi davano sui nervi.
«Lei è roba mia», mormorai tra me e me.
«Appiccia sto spinello Davidì», disse Valerio impaziente di fumare
«Eh? Ah si!», risposi uscendo dalle paranoie che mi ero fatto su Sophie e Federico.
Rimasi a fissarli per un po', poi misi la canna tra le labbra e l'accesi.

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