Capitolo 1

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Sophie

"Penso che anche noi, come Zeno, mentiamo involontariamente a noi stessi, che siamo capaci di dirci bugie guardandoci dritti negli occhi davanti uno specchio. La realtà così com'è è una percezione fin troppo astratta che va confusa, le bugie sono dei paracaduti che rendono l'impatto con il terreno meno drastico, anche se alla fine ci stiamo schiantando. Penso che ci dividiamo in altre centomila sfumature di noi stessi e che alla fine ci risulta difficile ricomporci. Mi sento come Zeno, che odiava fumare, ma lo faceva in dispetto di suo padre, odio il ragazzo con cui sto, ma lo amo perché so che a mia madre non piacerebbe".

Conclusi così il mio tema, anche se poi cancellai le ultime due righe. Riguardai attentamente il foglio e poi mi alzai per consegnarlo alla professoressa. Quel giorno si chiuse così: io che dopo la scuola mi dirigevo verso casa e non uscivo fino alla mattina seguente per ripetere quella monotonia affaticante che accompagnava quella mia parte di vita che ricorderò come "i miei anni migliori", ma ne valeva davvero la pena? Tutto quello studio, quel sognare ad occhi aperti fino a farli diventare lucidi, quella vita perfetta che mi ero creata nella mia immaginazione si sarebbe mai realizzata?
Per fortuna la scuola stava finendo, era la fine di maggio, il 29, quando mia madre mi disse di fare le valigie, come ogni anno, per passare le vacanze estive a Roma. 
Tutti gli anni io e la mia famiglia: mia madre, mio padre e mio fratello maggiore Riccardo, trascorrevamo i tre mesi dell'estate a Roma, da quando io e Riccardo eravamo piccolissimi, non sapevamo bene il perché, ma non ci importava e in realtà non ce lo eravamo mai chiesti veramente, ma andava sempre così, ogni anno. La fine di maggio sul calendario era sempre decorata con piccoli disegnini raffiguranti aerei e valigie, tranne quell'anno; non ero molto entusiasta di partire, non mi interessava neanche rimanere a Milano, non mi andava di fare quei disegni colorati sul calendario, non mi andava niente, era come se ad un tratto fosse rimasto solo l'involucro della mia anima sulla terra, i miei occhi erano spenti, grigi, tristi, ma parlavano più delle mie labbra.
Era finalmente arrivato il giorno della partenza, non vedevo l'ora di andarmene, staccare la spina per tre mesi mi avrebbe fatto prendere solo una boccata d'aria dai ricordi opprimenti.
Ogni cosa in quella grande metropoli mi ricordava lui, persino la cenere della sigaretta di mio padre mi faceva riaffiorare uno dei nostri mille ricordi insieme, come quando lui stringeva la sua Merit alle labbra mentre guidava di notte ed io sul sedile al suo fianco che guardavo i grattacieli sempre accesi, zitti, con la musica forte della sua playlist che risuonava in tutta la città. Mi accompagnava a casa, lasciandomi due isolati prima per non farci scoprire dai miei genitori ed io con la solita scusa d'aver fatto tardi per colpa dei tram troppo affollati. Se solo avessero saputo la sua età, che era senza un lavoro e che aveva la dipendenza per il gioco d'azzardo, di certo mi avrebbero rinchiuso in casa, facendomi desiderare qualcuno che in realtà non amavo, forse addirittura mi avrebbero legato ancor di più a lui.
Ero disposta ad andare contro il mondo intero per difenderlo, quando lui non avrebbe mosso un solo dito. L'unica cosa che era bravo a fare era ripetermi centinaia di volte al giorno che ero sua e che nessuno doveva neanche pensare di sfiorarmi.
Ricordo i suoi respiri nervosi sul mio collo e le mani a stringermi i polsi quando obiettavo qualcosa, quando dicevo la mia o facevo qualcosa che a lui non andava bene; in realtà niente gli andava bene, mai apprezzato qualche mio gesto, sempre criticato ogni mio angolo del corpo, ogni mio pensiero.
Però avevo imparato a conoscerlo, ormai gli dicevo di sì con la testa mentre pensavo a tutt'altro, ma non potevo negare che il più delle volte mi feriva.
E mi feriva anche la mia mente annebbiata che non aveva riconosciuto la tossicità del nostro rapporto, la nostra relazione era una casa vuota con le mura fatte di amianto.
Lo odiavo per tutto ciò che mi aveva fatto eppure avevo paura a viverne senza, pensavo che forse sarei potuta addirittura morire con la sua assenza.
Mi aveva trovata in un angolo, vuota, colma di tristezza, ma con una voglia matta di amare... e quando ci siamo lasciati io ero ritornata al punto di partenza, con la differenza che ero colma di apatia e priva di coraggio, perché ci vuole coraggio per fidarsi di qualcuno.
Dopo un anno di relazione avevamo condiviso così tanto che era impossibile non rivederlo nella quotidianità, nei gesti degli altri e nei volti dei passanti, ma cercai di trattenere il fiato e le lacrime, perché forse in fondo mi andava bene o perché amavo ciò che mi facesse del male, per la strana voglia di provare qualcosa, anche se era solo dolore.
Poggiai la testa contro il vetro con gli occhi socchiusi e guardai le goccioline scivolare giù, le nuvole grigie che si scansavano per far posto al tramonto. Infilai le cuffie alle orecchie, anche durante la spiegazione delle hostess, non volevo ascoltare nessuno.
D'improvviso sentii una mano toccare la mia e mi girai di soprassalto, mi ero quasi addormentata, guardai la mano risalendo per il corpo e vidi la bocca di mia madre muoversi, senza sentire una singola parola.
Strizzai gli occhi e tolsi una cuffietta.
«Tesoro! Va tutto bene? In questi giorni non ti ho sentito dire una parola, so che magari sei un po' triste perché non vedrai le tue amiche per un po', ma consider...» – la interruppi – «No mamma! Tranquilla! Sono solo stanca, ma ora che sono iniziate le vacanze riuscirò sicuramente riprendermi».
Sorrise e non aggiunse altro, credette ad ogni singola parola o forse non si volle intromettere, in ogni caso rigirò la testa sul sedile e chiuse gli occhi aspettando il decollo.
Una volta partiti guardai quella piovigginosa città rimpicciolirsi sempre di più e i miei problemi ancorati in quel posto.
Varcata la soglia della porta feci un respiro di sollievo, ero arrivata, anche se stanca, ma finalmente ero a casa. C'era ancora quel buon profumo di Yankee Candle alla vaniglia che, però, si scontrava con la puzza di chiuso, ma non dava fastidio.
La porta d'ingresso si aprì a fatica e quando lo fece il pulviscolo iniziò a danzare nell'aria.
Il pavimento era in marmo lucido, sormontato dal grande tappeto persiano che mia madre amava; i divani in stoffa marrone ricoperti dal telo bianco per far sì che non si sporcassero, davanti il tavolino in vetro e l'enorme televisione nella parete opposta, con sotto la PlayStation di mio fratello, la nostra infanzia, quando passavamo ore davanti quello schermo cercando di superare i livelli, lui che mi spiegava cosa fare ed io che ancora non sapevo neanche leggere; fonte di mille liti quando presuntuosamente si appollaiava sul divano, tenendo ben stretto il joystick in modo da non farmelo toccare, giocando per ore senza mai cedermi il posto.
Il salone mi aveva sempre dato l'impressione di un posto freddo, non sapevo se fosse per il bianco che si ripeteva dalle pareti ai mobili, ma tutte le volte che facevo ritorno in quella casa, al primo impatto, sentivo una carezza gelida in viso.
Andai verso la mia stanza, chiusi la porta e mi lasciai scivolare sul dorso di essa fino ad appoggiarmi a terra. «Finalmente a casa!» esclamai con gli occhi serrati, poi li aprii e mi guardai intorno. 
Tutto era precisamente come l'avevo lasciato: i peluche sul letto, le mensole sormontate di libri che mi erano stati regalati e che probabilmente non avrei mai letto, il computer sulla scrivania, le matite riposte nel portapenne, la toeletta con il vetro impolverato e così via...
Quell'invariabilità della stanza, del viaggio e diciamo della mia vita in generale non mi dava più sollievo, quegli occhi da bambina che lasciavano trasparire entusiasmo in tutto ciò che facevo erano spariti e avevano lasciato spazio a due pupille lucide sorrette da profonde occhiaie nere.
Mi sentivo come la fine di una guerra, bella e triste allo stesso tempo.
Con i piedi pesanti e gli occhi quasi chiusi mi diressi verso il letto buttandomi tra le sue morbide braccia e, lasciandomi sommergere dai cuscini, entrai in un sonno profondo.
La suoneria del telefono mi fece sobbalzare, aprii gli occhi di scatto e cercai il telefono sul comodino. Dopo svariati tentativi lo afferrai portandolo vicino a me.
«Pronto», risposi con voce rauca.
«Buongiorno», esclamò Francesca, la mia migliore amica.
Mia madre e sua madre erano amiche da molti anni, si erano conosciute all'università, stesso indirizzo, stessa casa. Quando mia madre lasciò gli studi per dedicarsi alla gravidanza di mio fratello, si trasferì a Milano con mio padre e di quel che era stata la sua vita prima ne era rimasta una polaroid e dei libri d'indirizzo mai letti.  Forse era il motivo per cui ogni anno mia madre sentiva l'esigenza di ritornare a Roma, non ne avevo idea a dire il vero, ma avevo saputo di quella storia ed era stata la prima ipotesi che mi era venuta in mente.
Quando nacqui io, lo stesso anno di Francesca, loro si erano rimesse in contatto, e ben presto finimmo a passare lunghi pomeriggi estivi insieme a giocare. Poi il vuoto, all'improvviso non la vidi più, di tanto in tanto ci incontravamo al parco o in alcune feste di compleanno, ma di mettere piede in casa sua non se ne parlava.
I rapporti li recuperammo con il tempo, ma quella era un'altra storia.
«Che ore sono?», domandai.
«Le 09:30, solo ieri ho saputo che saresti arrivata a Roma, quando avevi intenzione di dirmelo?»  «Beh... sorpresa!»
«Sono troppo felice che tu sia qui, vediamoci! Andiamo a fare colazione?»
«Certo! Ci vediamo al solito posto?» «Sì! A dopo».
Mi andai a vestire, niente di particolare, un jeans stretto e una maglia bianca, misi ai miei piedi le Jordan e mi recai in bagno per dare una sistemata alla mia lunga chioma di capelli ricci; subito dopo mi sedetti nella toeletta per truccarmi: il correttore per quelle orrende occhiaie che mi erano venute per la mancanza di sonno, il mascara e un gloss sulle labbra. Giacchetto di pelle sulle spalle e mi avviai verso il cortile per uscire dal cancello.
Davanti a me si scorgeva il nostro solito bar, ogni volta che tornavo a Roma la prima colazione la facevo con Francesca sempre nello stesso posto.
Da lontano avevo già visto i boccoli ramati di Denise e i suoi occhi scuri da egiziana; sedeva annoiata con le gambe incrociate, chissà se aveva saputo del mio arrivo.  C'è stato un tempo in cui noi eravamo quasi come due sorelle, ad ogni suo passo ne corrispondeva uno mio. Un tempo in cui mi arrabbiavo, Dio se mi arrabbiavo quando mi faceva del male, quando raccontava qualcosa su di me o che le avessi confessato io; e no, non mi arrabbiavo con lei, ma con me stessa, perché in fondo pensavo che la colpa era mia se lei continuasse questo gioco, se lei riuscisse a giudicarmi nei momenti più fragili nei quali avevo bisogno di un consiglio. Forse non avevo capito il significato dell'amicizia, per me era il contrario della solitudine, quindi cosa poteva essere peggio? Soffrire con lei o senza? Preferivo sempre la prima.
Seduta al fianco di Denise c'era Diana, mi criticava perché spesso stavo zitta, con il telefono in mano, fuori dal loro gruppo, per il resto non la conoscevo bene.
Di fronte c'erano Ginevra ed Elena, anche con loro c'eravamo conosciute da piccole, facevano parte di quella vita parallela che trascorrevo in estate.
Era la parte più bella, quando staccavo dalla mia vera vita su cui mi dovevo concentrare e vivevo per ciò che immaginavo di essere, quasi come nelle pagine di un libro.
Quando finalmente arrivai all'ingresso del bar si alzarono per salutarmi.
Denise mi sorrise e rigirò il capo da Diana.
«Beh che ci racconti Sophie? Ti sei fidanzata?», mi chiese Ginevra incuriosita mentre sorseggiava il caffè.
«Sono stata fidanzata... Forse è stato lo sbaglio più grande che io abbia mai fatto».
«Perché? Non lo amavi?»
«Si, tanto, forse troppo, forse così tanto che non era amore», l'ultima parola risuonò come una doppia mandata in una serratura.
«Ti capisco», sussurrò Denise.
Ci guardammo sbalordite, ritrovate a metà strada.
Mi sorprese quella frase, Denise era cambiata, percepivo quella punta di dolcezza che non aveva mai avuto. Così visibilmente a pezzi e lei non lo era mai.
Francesca le allungò il braccio e le strinse la mano, Denise inarcò appena un sorriso triste e tornò a tacere, poi si alzò in piedi e sospiro intristita, era così fragile ai miei occhi, le maschere che indossava le erano cadute, era disarmata, il cuore di latta che aveva cigolava per la ruggine, da tempo era fermo, ma era tornato a battere come quando da bambina saltava sul letto ed urlava: «Diventerò una stella», poi entrava sua madre e finivano i sorrisi.
In fondo non ci si può allontanare da ciò che si è, poteva nascondersi dietro quel suo essere cinica e fredda, ma dentro di lei sarà sempre quell'animo fragile che aspirava alle stelle, ed io la conoscevo bene.
Non mi intromisi, sarebbe stato inopportuno.
«Andiamo in piazzetta?», propose asciugandosi il naso e una lacrima che le scendeva da sotto gli occhiali neri. La guardammo in silenzio, poi le altre si avviarono per pagare il conto, io ne approfittai per rimanere due minuti in più con lei.
«Non c'è bisogno che mi fai compagnia Sophie, sto bene», mascherò il tono aggiungendo un po' di rabbia, era plausibile, non ci eravamo mai perdonate per tutti quegli sbagli infantili.
«Sai che io ci sono... nonostante tutto».
«Grazie».
Mi accennò un sorriso e si diresse dalle altre.
Arrivammo finalmente in piazzetta.
Le panchine in pietra si disponevano lungo il perimetro, sotto l'ombra degli alberi dai quali il sole filtrava i suoi raggi, attraversando le fronde, creando un'atmosfera in cui le risate e le conversazioni riempivano l'aria.
Ogni volta che vi tornavo mi sentivo più a casa lì che a Milano, in qualche bar con dei perfetti sconosciuti.
Profumava d'estate, di vento fresco, di natura e asfalto.
Ci sedemmo sulle panchine, le solite di sempre, io rimasi in piedi dietro Francesca e come sempre iniziai ad accarezzarle i capelli dorati, togliendole una volta tanto qualche nodo.
Nel lato opposto al nostro c'erano dei ragazzi, li conoscevo bene, ma sentivo una sorta di imbarazzo nel salutarli.
«Non ce la posso fare», disse Denise, le tremava la voce; nascose i suoi occhi dietro gli occhiali da sole, poi si chinò in avanti, poggiando il gomito sulle ginocchia, bloccò gli angoli della bocca con le dita e si ammutolì.
«Datti tempo» le dissero, non sapevo di cosa stessero parlando, io mi ero persa dentro me.
Francesca si alzò in piedi e mi tirò con se.
«Vieni con me», disse ed io la seguii.
Ci allontanammo dalle altre.
«Ti devo dire una cosa», continuò.
Uno di quei ragazzi infondo iniziò ad avanzare verso di noi. Era il fratello maggiore di Francesca, con la sua postura eretta e il portamento sicuro. Lo conoscevo già, ma non ci vedevamo da anni: lui passava molti mesi dalla nonna a Fiumicino ed io avevo la vita incentrata a Milano.
Il sole gli faceva da sfondo ed illuminava il bianco cappello, che alzò una sola volta, per infilare la mano tra i capelli, sistemandoli.
Il vento passava attraverso quel suo ciuffo castano che fuoriusciva dal berretto, conferiva al suo viso un'aria di mistero e noncuranza. I suoi zigomi alti erano sorretti dalla scavatura nelle guance, con i suoi angoli retti del viso tipici di un volto maschile, sembrava avesse i bordi disegnati.
Mi attirò il tatuaggio che aveva sull'avambraccio, era una scritta, ma non riuscii a leggerla.
«Sorellina!», esclamò sorridente, Francesca si voltò e cambiò discorso:
«Non ridere», sbuffò appena, si era irrigidita, poi aggiunse: «Non puoi continuare così!».
«Così come?».
Si fermò a due passi da noi e fu in quel momento che i nostri sguardi si incrociarono.
«A proposito... ciao Sophie!», aggiunse lui.
«Ciao, ehm...», mi bloccai con il suo nome sulla punta della lingua, non me lo ricordavo e non volevo lo capisse.
«Davide», ridacchiò e mi tese la mano.
Gliel'afferrai, era appena un po' ruvida e molto più grande della mia.
«Già ci conosciamo, ma se vuoi mi presento di nuovo», affermò guardandomi le guance rosse e i miei occhi abbassati sulla nostra stretta.
Stesi al gioco.
«Piacere, Sophie», lo sfidai fissando i suoi occhi verdi, intensi come i boschi in estate; avrebbero catturato l'attenzione di chiunque incrociasse il suo sguardo. Rivelavano una profondità interiore che mi spingeva a volerlo conoscere meglio.
«Davide De Angelis».
Mi lasciò la mano e mi toccò una ciocca di capelli.
«Ricciolina!», aggiunse, sembrava non avesse mai visto una ragazza con i capelli ricci.
«Perché sei venuto?», chiese Francesca, per un attimo ci eravamo dimenticati che non eravamo soli.
Si era creata una sottile intesa fra noi, eppure c'era stato poco più di un saluto.
«Non posso?», replicò Davide.
Mi sorprese proprio mentre lo fissavo, così distolsi lo sguardo e contai fino a cento per mandare via l'imbarazzo.
Aveva un sorriso sottile che si faceva strada solo occasionalmente, donando un tocco di enigmatico fascino al suo volto.
C'era qualcosa in lui che mi attraeva, non sapevo se erano quegli occhi verdi o il suo viso da diavoletto mascherato da angelo.
Dopo aver dato la sigaretta a Francesca, tornò dai suoi amici.
Mentre si allontanava di spalle, si voltò per guardarmi un'ultima volta, fino a quando i nostri occhi si mescolarono fra di loro.
Trattenni il fiato qualche secondo, poi mi voltai anch'io. Ad un tratto le mie guance si tinsero di rosso, mi aveva sorpresa per la seconda volta mentre percorrevo i suoi lineamenti.
Sembrava che tutto si fosse allineato all'ora esatta, nel momento preciso per far succedere quel nostro incontro.
Fu strano, fu banale, fu un saluto di sfuggita e un'eternità dentro i nostri occhi eppure eravamo solo in una stupida piazzetta, circondati da persone e con le voci dei nostri amici in sottofondo e nessuno si accorse di nulla.
Non riuscii a dire una parola, non ricordavo più come fosse guardare un altro ragazzo dopo Mattia.
Il tempo passato sola con me stessa mi aveva sviluppato un'intolleranza alla vita, un po' di apatia e distacco dal mondo esterno; meno favole e più realtà.
Mia madre aveva ragione sull'amore, sono solo tre aggettivi, nulla di più nulla di meno.
Davide mi incuriosiva, ma non avevo voglia di affezionarmi, lui doveva essere solo il mio tramite tra la vita che vivevo e la vita che volevo vivere; una dimensione fantasma sconnessa da tutto, fantasia e favole, rumore e silenzio, la versione di me felice e nessun altro. Non volevo nessuno al mio fianco.
Era stato l'unico capace di scuotermi ed io volevo riprovare altre mille volte quella sensazione.
Volevo sapere cosa c'era oltre i suoi occhi, oltre quello sguardo e l'aspetto fisico, avevo voglia di scoprire se quei suoi maledettissimi occhi verdi erano davvero così profondi o se il margine di un'anima superficiale.
Speravo nella prima, che di corpi vuoti ne avevo già visti abbastanza, per il resto volevo solo divertirmi.
Salutai le mie amiche e tornai a casa con la testa fra le nuvole, il pensiero fisso a Davide e su come catturare la sua attenzione.

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