Capitolo 12

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Davide

Arricciai il naso un paio di volte, mentre con il mio corpo ero fermo, immobile, a riguardare in loop nella mia mente la scena di lei che andava via da me.
Forse la cosa che mi faceva più male era pensare che aveva fatto bene, che io forse non sarei mai riuscito a trattarla come si meritava, a darle ciò di cui aveva bisogno.
Calai la testa, cercavo di regolare il respiro agitato sospirando piano e senza rumore, con gesti lenti del diaframma che quasi sembrava fossi morto.
Sentii alle mie spalle la porta aprirsi e chiudersi, dei passi pesanti verso me e il sospiro di chi butta via il fumo dalla bocca, poco dopo una mano sulla spalla ed una voce amichevole:
«Tutto bene?»
«Si Vale! Tranquillo»
«Non ti ho mai visto così per una ragazza!»
«Neanch'io».
Mi diete una pacca sulla spalla per confortarmi, ma la mia mente era già fuggita via con la malinconia che regnava in me in quel periodo.
«Non c'è bisogno che mi accompagni, mi viene a prendere Leonardo, sai... ha preso la patente da poco... ti vuoi fare un giro con noi?».
Buttò via la heets e rimase lì, davanti a me, in attesa della mia risposta che tardò ad arrivare.
«Ehm... no, non mi va, e poi devo fare una cosa!».
Il mio sguardo era assente, la mia pelle trasudava ansia, ed era quello il mio modo di dimostrarla: gli arti paralizzati, la bocca serrata, piccole o mezze frasi, il nulla riflesso nei miei occhi; si poteva confondere con i miei attacchi di nervoso dato che i sintomi erano simili, ma la differenza stava sempre nei miei occhi che parlavano, a volte gridavano, ciò che provavo.
«In questi giorni sei misterioso, sicuro che vada tutto bene?», domandò accompagnando la frase con una risatina per rompere il ghiaccio.
«Si, sicuro!»
«Okay. Oh! C'è Leonardo! Ci sentiamo amico».
Annuii ed entrai in casa lasciando alle mie spalle la porta e ciò che era successo fuori.
Ciò che Valerio non sapeva, e che mi stava balenando in testa, era quel cappio attorno al collo che ad ogni minuto sentivo sempre più stretto, con la vocina irritante di mio padre che mi sussurrava all'orecchio: «Ottocento euro entro sabato».
Mia madre non era in casa poiché stesse facendo il turno di notte nella casa di riposo in cui lavorava e lì per lì mi si accesse una lampadina: la cassaforte.
Non avevamo elevate somme di denaro, mio padre ci aveva prosciugati fino all'osso per comprarsi la droga, ma ciò nonostante gli volevo dare un'occhiata.
Il corridoio sembrava un tunnel infinito, con quella luce soffusa gialla che illuminava le pareti arancio, qualche quadro appeso e i disegni nella parte bassa che facevamo con mia sorella da piccoli
L'innocente sorriso per il ricordo d'infanzia svanì e mentre strisciavo due dita sul mobiletto nel medesimo corridoio, subentrarono ricordi che non volevo che rifiorissero nella mia mente.
Con i piedi di piombo arrivai davanti la porta della camera di mia madre, spingendola si sentii un cigolio a causa dell'usura delle cerniere d'innesto che sfregavano, essendo una vecchia casa era più che normale.
Fu un rumore assordante, che anche se piccolo, nel silenzio sembrò un grande squarcio, capace di svegliare Gemma che dormiva nella stanza accanto.
Trattenni il fiato cercando di capire se si fosse svegliata, il dominio del silenzio tranquillizzò il mio cuore scalpitante.
Avanzai al buio, spalancando gli occhi ed allungando le mani per tastare ciò che mi circondava.
Entravo raramente in quella stanza, mi ricordava le notti bianche con mia madre sul letto, quando stringeva il cuscino e piangeva, era il periodo in cui avevamo scoperto tutti i debiti che aveva fatto mio padre, dei soldi che ci aveva rubato e contemporaneamente era subentrato il licenziamento di mia madre. Lui scomparve per una settimana e noi eravamo stati trascinati nell'oblio.
Poca luce entrava dalla finestra in legno socchiusa, soffiava un vento fresco confortante che riusciva a donarmi sollievo.
Mi avvicinai al quadro della Madonna posto accanto all'armadio dalle ante a specchio e lo osservai con la testa inclinata a sinistra, come un bambino che guarda curiosamente qualcosa per la prima volta.
Quel quadro era uno dei pochi che mi piaceva davvero.
Forse la mia visione era un po' distorta, ricordavo la mia infanzia come una macchia nera, un po' come Leopardi che non era altro che un bambino che avrebbe voluto qualche dritta dal padre e qualche bacio dalla madre, anziché la totale apatia quasi come se fosse un estraneo per le persone che lo avevano messo al mondo.
Legato a quel quadro però c'era aggrovigliato un ricordo un po' più cupo, come tutto nella mia vita.
Stava arrivando l'estate ed io già dormivo con i pantaloncini del pigiama, quella notte era particolarmente calda ed io sentivo il sudore gremire il collo.
Dalla mia cameretta sentivo dei singhiozzi strazianti che mi facevano battere il cuore all'impazzata, facendolo risuonare dentro tutto il mio corpo. Mi poggiai sulla trave della porta ed affacciai la testa, non capivo perché le mie sorelle non sentivano niente, pareva che solo le mie orecchie l'avessero udita.
Lei era lì, a danzare con il panico su un pavimento di dolore, a piedi nudi sopra un cespuglio di rose rosse.
Ricordo la sua fronte madida e il pallore risaltato dalle occhiaie nere, ricordo il groviglio nel mio stomaco e la paura attraversare le membra del mio corpo.
Io la chiamavo, ma lei non mi sentiva, la disperazione la baciava in fronte e le sussurrava alle orecchie, e all'improvviso mentre stringeva il suo cuscino, con la faccia immersa nella federa, arrivò un attacco di panico vestito di nero con dei gemelli in oro nei polsini della camicia.
Si inginocchiò, sbattendo le gambe magre, tanto che sembrava l'osso rivestito da un sottile strato di pelle, e con il viso rivolto al quadro giunse le mani e iniziò ad urlare:
«Mi inginocchio! Ti prego! Ti supplico! Io mi inginocchio! Basta, ti prego! Ti supplico...»
«Mamma! Basta!».
Il panico si avvolse alla mia gola; cercavo di farla alzare, la tiravo per le braccia, ma era tutto inutile, era come se la sua anima fosse fuggita via e la sua parte concreta fosse rimasta lì, in ginocchio davanti un quadro, a ripetere sempre le stesse cose.
Mi abbassai di fronte a lei, le presi il volto con due mani, poggiai la fronte contro la sua, con gli occhi lucidi e i denti stretti le sussurrai:
«Mamma! Ti prego smettila! Mi fai paura!», e lei ritornò in se, come se avessi pronunciato la parola d'innesco e si fosse svegliata da un'ipnosi.
«Davide, tesoro mio! Mi dispiace!».
Abbracciò il mio esile corpo stanco e lo cullò tutta la notte fino a che la mia mente non si lasciasse andare ai sogni.
Il profumo di lenzuola così dolce mi svegliò dal ricordo, gonfiai il petto lasciando scivolare pezzi di drammi con il mio respiro e mi avvicinai ancora di più al quadro.
Lo sollevai e scorsi davanti le mie pupille la cassaforte.
Sapevo la combinazione, mia madre me l'aveva confessata, forse uno dei suoi tanti sbagli, mai fidarsi troppo di nessuno, neanche di me, anche se potevo sembrare un angioletto, dentro le mie ossa c'era il mio demone che picchiava le sbarre.
Quanti soldi avrò rubato per comprarmi l'erba; io che mi odiavo per la somiglianza troppo vera con mio padre, certe volte mi sarei strappato via anche la pelle del viso per togliere qualsiasi minima uguaglianza, ma infondo ero suo figlio e quella era la penitenza più straziante che avrei dovuto scontare, attimo per attimo, nel corso della mia esistenza.
Tutto ciò che avevo passato mi aveva reso invulnerabile a ciò che mi circondava, avevo stretto un patto di sangue con me stesso, sigillato da una botta in bagno: tutto ciò che mi poteva recare del male non mi avrebbe più ferito a condizione che io non avrei mai fatto entrare l'amore nella mia vita; patto che infransi già da quando i miei occhi avevano incrociato i suoi e ne stavo palesemente pagando le conseguenze, ma non potevo tenerla lontano da me.
Dopo aver messo l'ultimo numero la aprì con la facilità di aprire un barattolo, tirai la porticina in acciaio e dal suo interno adocchiai una mazzetta di soldi.
Non credevo ai miei occhi, riguardai indietro per assicurarmi che non ci fosse nessuno, poi allungai la mano e l'afferrai.
In un attimo risistemai il quadro nella stessa posizione in cui era messo e scappai in camera per contare i soldi.
Duecento, trecento, seicento... ottocento.
Avevo tra le mani la somma per saldare il debito e per chiudere una volta per tutte quel capitolo della mia vita.
Il pomeriggio seguente mi sembrava di vivere in una favola, era tutto così stranamente in ordine che mi sembrava quasi strano crederci, forse poche volte avevo provato quella sensazione.
Andai a mare dai miei amici, erano giorni che mi invitavano ed io rifiutavo sempre, così presi la prima asciugamano che avevo trovato in casa, il costume rosso ed il cappello Nike, e scesi in spiaggia.
Non sopportavo il caldo soffocante così mi sedetti all'ombra e con la schiena poggiata sullo zaino, le gambe ben stirate sull'asciugamano di Valerio, accesi la canna già pronta che tenevo nascosta dentro il pacchetto delle sigarette.
Aspirai quel buon profumo di erba che trasudava la cartina fumante e riscaldai il mio cuore con la cenere incandescente che si avvicinava al mio viso ad ogni tiro.
Mi spostai leggermente sul fianco per sfilare dalla tasca posteriore il telefono, lo portai davanti ai miei occhi e, quando il display si accese, vidi un messaggio da un profilo falso con scritto:
"Voglio una replica di quella notte insieme. Non importa dove, ma voglio vederti".
Sorrisi perché sapevo chi fosse e proprio perché ne ero sicuro mi limitai a non rispondere.
«Fammi fumare!», esclamò Valerio che bagnato fradicio si avvicinò a me scuotendo la testa per alleggerire i capelli dall'acqua del mare.
«Tieni fratello».
Fece un tiro e con la bocca piena di fumo mi guardò incuriosito:
«Beh? Non devi dirmi niente? Cos'è sto' sorrisetto felice?».
Scossi la testa con il maldestro tentativo di togliermi il sorriso:
«Niente Valè! Cazzate!»
«Ci sono stati sviluppi con Sophie?», domandò infittendo gli occhi vispi.
«No, non ne vuole sapere... mi sta facendo impazzire!»
«Baciala cazzo! Te le devo dire io ste cose? Prendila e baciala! Vuole essere scossa, vuole qualcuno che faccia il primo passo perché lei ha troppa paura, falle cadere tutte le seghe mentali che si fa».
Aveva appena pronunciato una scottante verità che mi era sfuggita da sotto le dita, aveva ragione ed io lo sapevo, ma quando lei era davanti a me io ero completamente disarmato.
Valutai affondo il suo consiglio.
Tornai a casa per farmi una doccia, il mio corpo odorava di sudore e i piedi erano ricoperti di sabbia.
Andai in cucina per prendere qualcosa da mangiare e lì trovai mia madre che smanettava con il telefono.
«Ciao mamma!».
Il mio volto era un mix di noia e stanchezza, erano notti che a malapena dormivo, avevo il pensiero fisso sul debito da saldare.
«Fatti una doccia! Puzzi d'erba».
Vidi la sua espressione disgustata e il mio disprezzo in lei per la facilità con cui mi criticava.
Portai all'altezza del naso la maglietta e le dovetti dare ragione, l'odore era forte.
«Fumi ancora quella spazzatura? Che schifo!», aggiunse senza risparmiare parole di disprezzo sul mio conto.
Mi limitai a guardarla con gli occhi vuoti e  il volto stanco.
«Va bene! Non rispondere, tu credi che sia una cosa intelligente fumare quella roba? Brucia i neuroni, altera le percezioni, le emozioni... finirai col guardarmi con la bocca aperta per l'assenza di neuroni nella tua testa».
Strizzavo gli occhi, in silenzio, per sopportare la predica ed aspettare un po' di quiete da parte sua. Non mi andava proprio di litigare e quelle parole le avevo sentite miliardi volte, sempre le stesse noiosissime frasi.
Iniziai a tremare dal nervoso, non sopportavo più i suoi sbalzi d'umore. Strisciai il pugno chiuso sul bancone e lasciai la stanza, mentre lei, con le vene evidenti del collo per la rabbia, mi sgridava come se fossi un bambino.
Lasciai scorrere l'acqua della doccia, contemporaneamente gettai i vestiti per terra, poggiai il telefono sul mobiletto del bagno e mi sostenni di forza sul lavandino, stringendo la ceramica bianca lucida che era stata evidentemente appena lavata. Alzai gli occhi allo specchio, dalla pelle scura del mio viso abbronzato risaltarono i miei occhi verdi pieni d'odio.
Lì, in quel preciso momento, mi riconobbi; il viso stanco, le iridi irrigidite, le braccia solcate dalle vene evidenti per i muscoli contratti, i capelli scombinati ed uno strano piacere all'interno del mio caos quasi giunto al termine.
Nello stesso secondo, però, notai quella parte di me svanire insieme al riflesso per via dello specchio che si stava appannando, avevo sbagliato ad impostare l'acqua, mettendola calda anziché fredda. Simbolicamente mi sentii cambiare e presi un'assurda consapevolezza che non sarei più stato lo stesso.
Avevo anche uno strano presentimento, tutto troppo tranquillo, ed io nel mare calmo non vi avevo mai messo piede.
Entrai in doccia, lasciai scorrere lungo il mio corpo il getto fresco per qualche minuto, senza muovere alcun muscolo, chiusi gli occhi ed abbassai il capo.
Nella mia mente si susseguivano scene di lei, la immaginavo nuda, magari sul mio letto, con il suo sorriso disarmante e le cosce lucide affondate sul materasso. La immaginavo provocarmi, tirarmi verso di lei ed abbassarmi i jeans.
Tirai fuori un sospiro che sembrava un orgasmo notturno, quando in dormiveglia si prova uno strano piacere che non si sa da dove provenga, che dura un paio di secondi.
Poggiai la testa sul muro in mattonelle della doccia, ancora con le palpebre serrate e le gocce che scivolavano lungo tutto il corpo, vedevo lei toccarmi, assaporarmi, la vedevo vestita solo dall'intimo e ballare con la sua carne calda che aveva riscaldato anche me, tanto da darmi al piacere più intenso.
Finita la doccia uscii attorcigliando l'asciugamano attorno al bacino e mi diressi in camera, mentre un pensiero squarciò la mia calma:
«E se ad inventare quelle cose sul mio conto fosse stato Edoardo? Sempre così appiccicato a Sophie, così fastidiosamente vicino».
Mi ripromisi che sarei dovuto andare a fondo della questione non appena avessi risolto altre cose più urgenti.
22:30, sabato sera.
Cacciai i soldi nella tasca dei pantaloncini in tuta che avevo deciso di indossare, infilai la maglietta e i calzini, le scarpe erano nella scarpiera di fronte la porta del bagno, così mi diressi lì per prenderle.
Nel corridoio mi incrociai con Francesca che non perse tempo a chiedermi:
«Perché non vieni in discoteca stasera?»
«Non mi va, tutto qui».
Le osservai il viso pieno di glitter e lo sguardo curioso nel voler sapere il perché, malgrado la mia risposta che si ostinava a non credere.
«Qualsiasi cosa tu debba fare spero ti diverta»
«Uhm... ok, grazie. Anche tu, divertiti e stai attenta».
Sorrise allontanandosi da me.
Infilai le scarpe e mi diressi al posto indicato: un vecchio magazzino nel nulla; era da sconsiderati andarci soli, ma non volevo che nessuno, oltre me, ci finisse in mezzo.
Era un po' che mi sentivo sempre ad un passo dal patibolo, eppure quella sera la sensazione si fece ancora più intensa.
Il magazzino abbandonato si trovava in una strada di campagna, abbastanza lontano da dove abitavo io. Essendo lontano dalle case arieggiava aria fresca e non quel calore vigoroso dei centri popolati.

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