Capitolo 11

41 2 3
                                    

Sophie

Certe volte mi capitava di ripensare al mio ex e alle cose assurde che facevo per stargli accanto, ciò che sopportavo perché credevo di essere innamorata e invece? Perdevo sangue a gocce deformi dal mio corpo e non me ne accorgevo.
Con le note aperte del mio telefono, il buio in camera e la luce del display bianco che mi illuminava, scorrevo con il dito i miei vecchi sfoghi, che essendo così pesanti il mio cuore non riusciva a trattenerli.
Mi soffermai sullo sfogo di una notte insonne a causa di quello stronzo, che mi faceva sentire sempre così inferiore rispetto a tutto e tutti.
"E stavi tu con il tuo ego e io con la mia solitudine.
Le persone come te sono come delle malattie terminali, che si attaccano alla tua vita e ti divorano, attimo dopo attimo, vivendo sulle tue spalle.
Tu che sai di essere sbagliato e fai di tutto per camuffarlo, facendo sentire me la prima ad essere sbagliata.
Non mi ascolti mai e sai quanto mi fa male sentirmi invisibile, soprattutto per te.
Forse in realtà tu non hai bisogno di amare qualcuno, ma solo un modo per placare il tuo istinto animale.
Ti amo e poi ti odio, mi un po' schifo e un po' mi attrai, non potrei fare a meno di te, ma nel frattempo ho bisogno che tu vada via prima che la benzina che hai lasciato sul mio corpo prenda fuoco".
Era un bastardo.
Riusciva a penetrarmi l'anima con quegli occhi castani che ricordavano gli angoli retti e spigolosi delle montagne, io mi ero decisa a scalarli, ma non mi ero resa conto del fatto che, una volta in cima, mi aspettava un'orrenda creatura; che poi mi avrebbe portata nella sua tana per cibarsi di me, buttando giù dalla vetta ciò che del mio cuore era rimasto, ovvero un vecchio pezzo di porcellana frantumata.
Mi toccava con quelle sue luride mani grandi, il mio corpo era di sua proprietà.
Ricordo lo schifo che gli usciva dalla bocca insieme al fumo delle sue adorate Merit rosse, la puzza di vomito mischiata a quella delle sigarette annebbiava il garage in cui stavamo.
Era un po' ambiguo e freddo, quattro pareti grigie, una lampadina economica che penzolava dal soffitto ed un piccolo tavolo in legno antico, forato dai tarli così come le sedie, infine il divano rivestito di telo verde.
Mi si leggeva la paura sul viso quando, anche per sbaglio, mi ritornava in mente il vecchio ricordo di quel posto.
Nonostante ciò che avevo saputo su Davide, non riuscivo seriamente a crederci, mi sono sempre apparsi fottutamente sinceri quei suoi occhioni verdi e le sue parole... Dio le sue parole mi rimbombavano in testa facendomi sentire uno schifo per come l'avevo trattato.

Spensi il telefono, misi un completo sportivo e andai a correre, dovevo stancarmi per smettere di pensare.
Cuffie alle orecchie, musica a cento, coda dei capelli che oscillava a destra e a sinistra sul dorso della mia schiena, battiti del cuore a tempo con i passi veloci dei piedi scandivano il mio fiato.
Pochi metri e già sentivo il solido odore di cemento ed erbetta invadere le narici spalancate, la bocca iniziava ad asciugarsi per via della respirazione.
Non essendo più abituata ben presto sentii la stanchezza aggrapparsi alle gambe e le spalle umide, ma i miei occhi e la mia mente erano solo all'inizio.
Rammentavo i salti mortali che facevo per perdere peso e quei tremendi pensieri, come quando mi vedevo a tratti grassa e a tratti senza forme; il peso sul petto quando vedevo i jeans stringere sulla vita o quando scorrevo le foto di Instagram che proponevano stereotipi inarrivabili.
Allora stringevo i denti e non mangiavo, mi vestivo larga, non mi guardavo allo specchio e la sera, quando tornavo a casa, con la testa sul cuscino scrivevo sul mio telefono il dolore che provocava i miei occhi lucidi:
«E stasera quando passerò per le stanze vi prego coprite gli specchi, non mi va di vedere quante ferite porta addosso la mia anima, non mi va di vedere le mie ali spezzate, non mi va di vedere le perdite di sangue per ogni desiderio infranto, non
mi va di vedere i miei occhi gonfi e stanchi per la tristezza, quegli occhi sbiaditi dalle lacrime, dalle lacrime che ho versato fino a perdere l'azzurro della mia iride.
Mi vedo male allo specchio, risaltano tutti i difetti, indosso solo quelli: la pancia gonfia, le gambe flosce, i piedi grandi, i peli, le puntine, il naso, i capelli spettinati; non sono e non sarò mai come voglio essere, fino a prima mi piacevo, ma adesso? Mi sono fatta accarezza dal piacere del "cedere" e quella carezza non era altro che la fonte di uno schiaffo, ma va così, più soffro e più affogo nel cibo poi ingrasso, sto male e mangio, quando ci vuole per arrivare a vomitare?
Mi vedo grassa, sono grassa... non voglio vedere come sono diventata, non riuscirei a reggere, allo specchio non nascondi niente... vorrei solo avere il coraggio di guardarmi per un attimo e vedere una bella ragazza.
E lo so che sono solo parole buttate al vento e che un giorno non ci farò caso, ma per adesso il vento me le sta portando contro e io sono in una tempesta».
A dire il vero qualsiasi cosa scrivevo sulle note del mio cellulare, mi dava aria.
Dopo la corsa stancante mi fermai un po' in piazzetta per riprendere fiato, era mattina e non c'era quasi nessuno, a parte Edoardo con i suoi amici che sedevano in una delle numerose panchine.
Con i capelli sporchi, la macchia di sudore e una cuffietta nell'orecchio destro, notai Edoardo avvicinarsi a me.
«Hey Winnie», mi salutò lui cacciando una mano in tasca.
Io puzzavo di sudore, lui di Versace Jeans.
«Hey».
Freddai il mio saluto.
«Come mai indossi solo una cuffia?».
Mi domandavo cosa gli importasse mentre con gli occhi cercavo di non farlo sentire il benvenuto all'interno della mia area vitale.
«Ehm... come mai sei qui?»
Sorrise ed aggiunse:
«Ok non ti va di parlare...»
Stava per andarsene ed io mi sentivo quasi in colpa per avergli risposto male, quando d'un tratto le sue labbra pronunciarono qualcosa che mi fece rimangiare il senso di colpa:
«Già ti ha tradita Davide? Sei durata meno delle altre!»
«Ma di che stai parlando?».
Un brivido ghiacciò il mio sudore.
«Mi hanno detto che ieri Davide si è baciato con una ragazza e che poi li hanno visti uscire insieme dalla discoteca», raccontò quasi felice.
«Non ti credo! E anche se fosse ti ho già detto che io e Davide non stiamo insieme»
Presi le cuffie, accesi la musica, ma lui non si rassegnò, me la sfilò dall'orecchio e continuò:
«Va bene, allora dato che non sei impegnata ti va se ti passo a prendere stasera?»
«Credo che proprio stasera non posso, facciamo un'altra volta».
Allungai il braccio per riprendere la cuffietta dalle sue mani.
«Mmh... come vuoi, comunque sei bellissima Winnie!».
Sorrisi, mi restituì l'oggetto preso e si allontanò per tornare dai suoi amici.
Non credevo alle parole di Edoardo.
Un Audi sfrecciò vicino la piazzetta, non poteva essere altro che Valerio con quella sua guida spericolata, così alzai la mano per salutarlo, ma mi accorsi, però, che alla guida c'era Davide, con i suoi occhiali da sole neri after serata in discoteca, senza patente e senza cintura.
Più lo guardavo e più mi dimenticavo del motivo per cui mi fossi arrabbiata. Io che avevo iniziato solo per gioco, mi ritrovai a vergognarmi per il solo incrocio dei nostri sguardi dopo una litigata. Doveva essere una partita spassionata a chi sapeva conquistare, eppure eravamo finiti per intrappolarci l'uno nel cuore dell'altro.
Il ciuffo moro di Valerio fece capolino dallo sportello della sua macchina, con il viso chiaro e una sigaretta tra le dita si avvicinò a me.
«Hey Sophie», mi salutò con la voce da bambino.
«Hey!».
Nel mentre Davide stava lì, su quella panchina, il viso serio e il colorito della pelle post sbronza.
«Come va?»
«Tutto bene».
Si grattava nervosamente la testa, sembrava volesse dire qualcosa e che il suo avvicinarsi a me era più significativo di quel che sembrava.
Cercai di spronarlo:
«Devi dirmi qualcosa?».
«Eh? No, no macchè».
Osservai tutti i suoi gesti, guardava in alto, a destra, a sinistra, ogni tanto a me e ogni tanto per terra, aspirava il fumo e mordeva l'interno delle guance.
«Senti se mi devi dire qualcosa dilla e basta», ridacchiai un po' tirando l'elastico al polso sinistro che stringeva la mia pelle.
«Va bene, non ci giro intorno... so che ti frequenti con un ragazzo».
Arrancò i suoi occhi infilandoli nei miei.
«Ma perché tutti credono che sia impegnata?! Comunque non è vero»
«Non vorrei che la persona che si è messa a dire queste cose di te sia la stessa che ha inventato quelle cazzate su Davide».
Lo guardai per qualche secondo, cercavo di capire se lui sapesse chi fosse.
«Stai attenta So! E non credere a tutto ciò che dicono»
Furono le sue ultime parole prima che si allontanasse da me, ancora una volta mi ritrovai sola con me stessa.
Quando pensavo troppo a qualcosa finivo col non avere più nessun sapore, l'unico che mi era rimasto era l'amaro gusto del nulla, niente, nessun emozione, nessun punto di vista da cui guardare, nessun brivido a scuotermi. L'indecisione aveva colorato tutto di grigio.
Se Francesca mi fosse stata accanto mi avrebbe fatto uno di quei suoi schemini con il pennarello blu e tutti ordinati, con i pro e i contro delle scelte da prendere.
Da un lato c'era quella voglia di giocare, di nasconderci, quella voglia di stare insieme e poi prendere ognuno le nostre strade, ma dall'altra c'era il mio cuore che aveva messo in gioco i sentimenti, senza avvertirmi.
Avevo paura di farmi del male.
Ripensavo e ripensavo, volevo essere razionale, non volevo rischiare, la paura mi divorava, l'ansia mi giocava brutti scherzi, l'adrenalina mi tentava, lui mi attraeva come non mai.
Mi ritrovai con il telefono tra le mani, lo chiamavo incessantemente, ma nella mia stanza regnava il rumore della segreteria.
Mentre disperata mi sorreggevo il viso, con le mani che coprivano dal naso in giù , esclamai:
«Davide, dai cazzo rispondimi!»
Mi sedetti sul letto e mi sentii uno schifo.
Staccai l'ultima chiamata, cercavo di consolarmi pensando che magari non aveva sentito il telefono squillare, ma chissà perché le mie stesse parole mi risuonavano di bugie dette per autoconvincermi, nel vano tentativo di stare meglio.
Mi mordevo il labbro inferiore affondando i denti fino a tagliare la carne, non sentivo dolore, la mia testa tormentata era altrove; fino a quando sentii un leggero pizzico proprio nella bocca.
Mi avvicinai allo specchio e vidi la gocciolina di sangue spargersi nelle venature screpolate del labbro, poggiai il dito sopra e asciugai quella lacrima rossa.
«Non va bene», pensai.
Stavo perdendo il controllo, mi stava logorando più la sua assenza che tutti quei stramaledettissimi dubbi che mi facevo.
Anche se era pomeriggio e il sole era più forte che mai avevo bisogno di stare con qualcuno, o sola sarei finita per impazzire.
«Valerio dove sei?», dissi al telefono non appena sentii la sua voce rispondermi.
«Sto scendendo a mare»
«Sei solo?»
«Per ora si, poi mi devo incontrare con gli altri ragazzi... perché?»
«Ho bisogno di parlare con qualcuno».
Non sapevo il perché, ma le mie stesse parole avevano smosso qualcosa dentro me, da farmi venire gli occhi lucidi e il tremolio alle corde vocali.
«Hey... Sophie, tutto bene? Ti sto passando a prendere»
«Ma... i ragazzi ti aspettano a mare»
«Chi se ne frega, ci vado più tardi».
Il mio cuore si riempì d'affetto, era bello sapere che quando diceva che se avevo bisogno lui c'era, poi c'era veramente.
«Grazie... ti aspetto!».

Oltre i miei occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora