Capitolo 6

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Davide

La guardai allontanarsi pensando a ciò che mi aveva appena raccontato, dopo qualche minuto di sbigottimento tornai a casa.
Mi buttai sul divano e accarezzandomi le nocche livide pensai a Kevin e a ciò che era successo.
«Mi spieghi che ci facevi con Sophie», gridai non appena arrivati in un vecchio magazzino in periferia dove si era fermato per pisciare.
«Fratello», si fermò per il singhiozzo. «Ho visto che era sola ed era pure bella».
Era completamente fatto, barcollava con i jeans abbassati mentre cercava di fare la pipì, ma a stento si reggeva in piedi.
Io gli diedi le spalle tenendo il capo basso ed osservando le mie scarpe sporche di terra.
«Che volevi fare? Te la volevi scopare?».
Arrivò di soppiatto alle mie spalle, con gli occhi semichiusi e l'alito che puzzava di alcol, per un attimo sembrò di stare faccia a faccia con mio padre. Rabbrividii, cercavo di mandare via i ricordi, ma la mia mente era completamente annebbiata, sbattevo velocemente le palpebre come se mi fosse finito del fumo negli occhi.
«Eh quindi? Anche se fosse? Me lo dovevi impedire tu?», ridacchiò.
Rimasi in silenzio a fissarlo, le mani mi solleticavano così come le corde vocali.
Si allontanò di poco per prendere le chiavi dell'auto che gli erano cadute nel momento in cui aveva abbassato i pantaloni. Io respiravo lentamente cercando di calmarmi.
«Comunque si, volevo farmela», affermò. Non vidi più nulla, un telo nero si era calato davanti ai miei occhi.
«Figlio di puttana!», urlai.
Il cuore mi stava balzando fuori dalla gola.
Lo spintonai facendolo girare di fronte a me, lo afferrai per il colletto della maglietta, attorcigliai la medesima stoffa attorno al mio pugno e, tenendolo ben stretto, iniziai a colpirlo senza pietà, con tutto l'odio che mi formicolava nelle mani. «Davide», sospirò senza reagire.
La voce gli usciva a fatica mentre dal naso gli colava un fiume di sangue. Mi fermai per guardarlo in faccia, per vedere la sua sofferenza.
Con la faccia ormai piena di sangue, le guance e gli occhi viola per i lividi, lo lasciai andare. Lui ormai privo di forze, si lasciò accogliere dal pavimento in cui rimase fino a quando non girai l'angolo.
Quelle immagini della nostra lite mi passavano continuamente in testa, come se qualcuno avesse lasciato in loop la riproduzione di un film.
Sentii il clacson di un'auto e mi ricordai che Valerio mi stava venendo a prendere, così svelto presi le chiavi ed uscii.
Salito in macchina accesi finalmente la canna che tenevo nascosta nel pacco delle sigarette per non farmi scoprire da mia madre.
Quando con la mano avvicinai la fiamma dell'accendino Valerio notò le mie nocche livide.
«Che mi sono perso?»
«Niente, perché?», domandai.
«Hai la mano viola».
Guardai la mano analizzando le macchie violacee che si erano create, un segno in più che questa vita di merda mi aveva lasciato addosso, ma nonostante questo mi misi a ridere.
«Mi hanno fatto arrabbiare, se la sono cercata!».
Improvvisamente la macchina di fronte a noi si fermò costringendoci ad inchiodare la frenata. Nel colpo mi era caduto l'accendino sotto ai piedi, così mi abbassai per prenderlo.
Cercai con la mano sotto il sedile, appena mi abbassai sentii il forte odore di pelle che emettevano i sedili confuso con l'odore di quell'alberetto profumato che Valerio aveva buttato di lato, nello scompartimento dello sportello; nauseante tanto quanto tutte quelle briciole di panino sparse ovunque sul tappetino sotto ai miei piedi. Mi feci coraggio ed infilai ancora di più la mano sotto il sedile, tra bottigliette d'acqua e quel che credo fossero sacchetti di plastica, toccai qualcosa di molto fino, lo afferrai e portandolo alla luce capii che si trattava di un bracciale femminile.
«E questo cos'è?», domandai con il reperto trovato nelle viscere della macchina dal tintinnio assordante.
Dondolavo il braccialetto tenendolo con due dita, facendolo oscillare davanti agli occhi per fargli affiorare il ricordo di quella scopatina in macchina che si era dimenticato di raccontare e, pensandoci bene, poteva essere avvenuta proprio sul sedile su cui ero seduto.
«Sì ok, sono stato con una ragazza», rispose con un mezzo sorriso posto al lato della guancia.
Se lo conoscevo bene e di fatto era così, quella risatina innocente canticchiava alle mie orecchie note di imbarazzo.
«Lo sapevo! Cazzo ma non mi dici più niente. Chi è questa?».
Aspirai qualche tiro dalla mia canna fumante, con la cenere che aumentava ad ogni tiro, lasciando la scia di fumo della cartina un po' ruvida bruciata, arrotolata per bene a forma di cono.
«Nessuno! Non è importante. Dammi dai!».
Improvvisamente diventò serio, cancellando anche quel micro-sorriso che le sue guance avevano inarcato. Mi strappò il braccialetto dalle mani infilandoselo in tasca, motivo per cui mi limitai a guardarlo senza dire niente, pensando che forse le mie domande erano state un po' inopportune, anche se non l'avevo neanche pensato sul momento dato che eravamo abituati a dirci di tutto.
Arrivammo in piazzetta, trovai Federico ed Edoardo sulle panchine delle ragazze, con quella loro aria di superiorità e gli sguardi da pervertiti.
Gli occhi di Edoardo spogliavano Sophie, la guardavano spalancati, come se non avessero visto mai altre ragazze; era un gesto così invadente che neanche se ne era reso conto, ma lei sì e si copriva, come se veramente avesse avuto il potere di farle scendere i jeans.
Federico posava i suoi occhi su tutte, nulla da aggiungere, mi faceva ribrezzo solo ad osservarlo da lontano, sembrava un maniaco.
Edoardo era sempre stata una di quelle persone che mi trasmettevano sfiducia, non mi convinceva, né il suo modo di fare, né il suo carattere di merda; inoltre sembrava avesse una voglia ossessiva di ciò che volevo io, mi invidiava.
Il suo ego smisurato avrebbe finito per fargli del male, il suo essere così superiore a tutti non avrebbe fatto altro che rendere la caduta dal piedistallo che si era costruito ancora più dolorosa.
La vita gli aveva dato la grazia nel nascere ricco, sì, un ricco pezzo di merda.
Malgrado l'antipatia nei suoi confronti mi spingesse giù dalla panchina per spaccargli la faccia, il mio buonsenso, che ricordavo di avere solo in quei casi, mi aveva incatenato sul sedile in pietra, limitandomi a fissarli da lontano.
«Ragazzi guardate qui!», esclamò Valerio per attirare la mia attenzione e quella di Leonardo.
«Che c'è Valè?», rispose Leonardo.
Valerio estrasse dal suo borsellino magico l'Orange weed. Una varietà di marijuana molto apprezzata per il suo eccezionale gusto ed inconfondibile profumo, potrebbe essere anche legale se non fosse che decisamente quella che Valerio nascondeva per bene nel suo borsello superava la percentuale di THC permessa.
Leonardo rimase a bocca aperta, quei lineamenti arancioni dell'erba riflettevano nei suoi occhi, gli era venuta l'acquolina in bocca.
«Cazzo! Che aspetti?! Girane una!», disse Leonardo.
Valerio lo guardò con gli occhi felici, ma non accontentò il suo desiderio perché si dovette alzare dalla panchina, in cui ci sediamo tutti i santi giorni, per rispondere ad una chiamata.
«Come va con la milanesina?» mi domandò Leonardo, la sua curiosità mi irritò particolarmente, sapevo le intenzioni che aveva con lei.
«Toglitela dalla testa».
«Togliermela dalla testa? Impossibile. Anche solo a guardarla da lontano mi sento male. È una bomba».
Iniziarono a tremarmi le mani e le labbra.
«Ma fidati di me Davide: a lei non piacciono quelli come noi».
«Che vuoi dire?», mi voltai dubbioso e riposai lo sguardo su di lei. Era là, su quella panchina, con le gambe incrociate e la testa chinata sul telefono. «Sarà una ricca stronza. È lei che porta a letto a te, non il contrario».
Guardai ancora una volta il suo volto serio e capii che avevo perso la testa per la ragazza più complicata dell'universo.
Tutti che le davano quelle etichette, che le appicciavano maschere sul volto, e lei che se le incollava addosso con dei chiodi. Forse stavo anche sbagliando, ma quel viso angelico così serio mi faceva davvero paura.
Le parole di Leonardo non erano del tutto sbagliate, anch'io pensavo fosse stronza e anch'io ero d'accordo sul fatto che sarebbe stata lei ad avere più controllo.  «Però, ti devo confessare, che secondo me oltre ad essere stronza è anche un po' troia, si vede da come guarda Edoardo», sogghignò Leonardo.
I miei battiti si bloccarono, la gelosia mi pietrificò.
«Rimangiati immediatamente quello che hai detto», mormorai la prima volta e lui fece finta di non sentire. «Rimangiati quello che hai detto», urlai la seconda volta.
Poggiai la fronte contro la sua, tagliandogli il viso con i miei soli respiri.
Immaginavo già di avere gli occhi rossi, il cuore in gola che stavo per vomitare e le mie mani che non smettevano di tremare.
Tremava immobile con lo sguardo fisso sui lacci delle sue scarpe, io davanti a lui con le mani strette nel colletto della sua maglietta. 
«Oh ragazzi che cazzo succede?!», gridò Valerio correndo verso noi.
Lo avevo visto con la coda dell'occhio avvicinarsi a me, mi tirò per il braccio.
«Scusa Davide», s'impietosì Leonardo.
Valerio mi prese la faccia con forza e mi guardò dritto negli occhi stringendomi le guance.
«Calmati Davide!».
Rimasi con gli occhi spalancati, fissavo il vuoto cercando di distogliere la mente, riempivo i polmoni respirando innervosito come un toro che cerca di prendere quel maledettissimo telo rosso.
Di quella scena si accorsero Federico ed Edoardo che corsero verso di noi, probabilmente anche le ragazze avevano visto qualcosa.
«Tutto a posto?», chiese Federico.
Cercai di liberarmi dalla presa di Valerio che si ostinava a tenermi il viso.
«Sono calmo!», esclamai spingendolo via con le pupille.
«Cos'è successo?», domandò Federico e alla sua domanda rispose Valerio, io ero troppo nervoso per farlo.
«Niente, cazzate».
Vedevo Leonardo che gesticolava mentre raccontava la sua versione ad Edoardo, lui che mi guardava male e io che volevo una scusa per spaccargli il setto nasale. «Andiamo Davide!», mi ordinò Valerio toccandomi il braccio.
«Sicuro che ti sei calmato Davide?», sussurrò Federico. «Sì, tranquillo e digli al tuo amico che se ancora lo vedo scherzare con Sophie gli taglio le mani», sorrisi ironicamente e gli diedi una pacca sulla spalla, poi seguii Valerio.
Arrivammo fino a dove aveva parcheggiato il motore Valerio, io pensieroso e infastidito, lui vago, si guardava le spalle e la piazzetta alla sua destra.
«Cos'è successo?» mi chiese Valerio, io continuai il mio silenzio.
«Davide! Ora sei incazzato anche con me? Parlami dai», ritentò.
Feci un lungo sospiro, poi mi decisi a rispondere:
«Ha detto frasi su Sophie che non mi sono piaciute».
«Tipo?»
«Nulla, dai accompagnami a casa», aggiunsi e chinai gli occhi sullo schermo del telefono. Posò il borsello sotto la sella e partimmo, al solito senza caschi.
«Cazzo!»
«Che c'è?!».
Spostai la testa e i miei occhi si illuminarono di blu di quei lampeggianti che intervallavano i battiti del mio cuore.
L'intera strada buia squarciata dalla luce della volante con a fianco due carabinieri in divisa, con quegli stivali neri lucidi e la pesante cinta in vita in cui vi erano la pistola e il manganello.
Aspramente mandai giù un goccio di saliva, quasi non respiravo neanche, anche la speranza era morta. Non solo non avevamo i caschi, in più sotto la sella c'era il borsello di Valerio con l'erba.
Lui iniziò a rallentare, non potevamo cambiare strada, non c'erano altre vie o scorciatoie e di certo Valerio non sarebbe scappato.
Il vigile alzò la paletta in aria, facendo segno di accostare, in quel preciso momento la paura iniziò ad essere reale.
Sapevo che Valerio stava già pensando al discorso da fare ai suoi genitori dandogli una scusa bella e buona del perché, quel giorno, aveva dell'erba con sé. Ci fermammo dietro l'auto nera che ci illuminava i volti, io e lui ci guardammo in faccia.
«E ora che cazzo facciamo?!», mormorò Valerio. «Calma! Mostrati rilassato. Digli che sei il figlio di un loro collega e ci lasceranno in pace».
«E se mi chiedono di aprire la sella che cazzo faccio?» Cercavo di tranquillizzarlo, nel frattempo stavo morendo dentro anch'io.
Il carabiniere si avvicinò a noi, io serrai le labbra e respirai lentamente. «Buonasera!», disse Valerio.
Iniziò a scrutarci con gli occhi e noi immobili senza neanche prendere fiato.
«Scendete dal motore», ordinò affondando le pupille come artigli sul nostro volto.
«Sì certo!», rispose Valerio continuando la recita nei panni di un comune ragazzo che non stava nascondendo sostanze illegali con il rischio e la consapevolezza di passare dei guai seri.
Valerio mi fece segnale di scendere, io tardai a farlo. «Ho detto di scendere da questo cazzo di motore, ve lo dovete far ripetere un'altra volta? O scendete senza rompere i coglioni?!»
All'improvviso sentimmo il rombo di una macchina in lontananza, il tempo di battere ciglio e vidi una macchia rossa sfrecciare sulla strada, portando con sé un forte vento.
Entrambi i carabinieri si voltarono.
«Parti!», esclamai all'orecchio di Valerio, lui senza esitare girò la chiave.
Mi sporsi indietro e poggiai il piede sulla targa. Non dovevo girarmi, ma fu inevitabile. 
Io e lui ci guardammo negli occhi, sembrava mi conoscesse.
Tirammo un lungo sospiro di sollievo, a Valerio uscirono due lacrime di gioia, ancora non ci credevamo che l'avessimo scampata. «Tu sei pazzo!», urlò Valerio.
Una volta arrivati abbastanza lontani ci fermammo per qualche minuto.
«Io già mi vedevo in centrale con mia madre che mi sgridava», ridacchiò lui con le lacrime agli occhi.
«Tu? E io mi immaginavo con la divisa del carcere a raccontare al mio compagno di cella come ero finito dentro», piangeva un po' per le risate e un po' perché ce l'avevamo fatta.
«Mi sono cagato addosso».
«L'ho visto Valè ».
«Oggi è il mio giorno fortunato! Andiamo a comprare un gratta e vinci!», esclamò mettendo in moto.
Passammo tutto il tempo della strada a ridere dei film mentali che ci eravamo fatti, sballati e felici, anzi più che felici, al settimo cielo.
Arrivammo al tabacchino e io rimasi fuori aspettando Valerio che mi comprasse le sigarette. Lo vidi dal vetro del negozio e si era veramente comprato un gratta e vinci, era intento a leggerlo per vedere se avesse vinto o meno.
Ad un certo punto notai che urlava divertito, così felice che abbracciava tutti quelli che passavano accanto a lui, diede persino un bacio ad un vecchietto seduto al tavolo che stava leggendo il giornale.
Con le braccia al cielo ed il gratta e vinci nelle mani si avviò alla cassa per riscuotere la vittoria.
Mi stava facendo morire dalle risate, ero curioso di sapere la somma che aveva vinto.
«Ho vinto!», annunciò.
«Quanto?»
«Dieci euro!»
«Come dieci euro? Ma da come ti ho visto contento pensavo almeno cinquecento euro».
«Sono sballato Davide! Sono troppo sballato. Te l'ho detto che oggi è il mio giorno fortunato!», disse euforico.
«Va bene però ora andiamo a casa, sono solo le 02:00 di notte e sono successe abbastanza cose strane per i miei gusti», risposi.
«Sì hai ragione! Ah comunque tieni, ti ho comprato le sigarette».
«Grazie fratè».
Arrivato davanti il cancelletto di casa annusai la maglietta, faceva un forte profumo d'erba, poi mi specchiai al cellulare e mi accorsi che avevo gli occhi pieni di venature rosse. Sistemai i capelli ed entrai dal portone cercando di non far rumore, con l'unico obiettivo di arrivare in camera, mia mamma non mi poteva vedere in quelle condizioni.
Chiusi la porta della stanza e lentamente aprii il pacco delle patatine; mi poggiai contro la spalliera del letto, dalla finestra entrava quella piacevole brezza fresca notturna, sentivo la pace fare quel suo piacevole rumore del nulla.
Il display illuminato mi accecava, però riuscii subito a leggere il nome di Sophie tra gli altri messaggi.
Mi domandavo se una ragazza come lei potesse mai stare con uno come me, forse dovevo lasciare perdere tutto, forse era la cosa migliore per lei, io ero un completo casino.
Mi faceva perdere la testa il pensiero di pensarla sempre, non riuscivo a farne a meno.
Erano le 02:30 di notte, ma le scrissi comunque.                         
"Hey ricciolina!" 
Avevo un sorriso da scemo sulle labbra. 
"Hey Davide De Angelis! Dove sei stato tutta la serata?".
Anche se dai messaggi non trasparivano le emozioni sembrava l'avesse detto con quella sua vocina tenera.
La chiamai, volevo sentirla.
«Hey». 
«Ciao», rispose.
«Che fai?»
«Niente, sono qui sul letto e non riesco a prendere sonno. Tu?», domandò.
«Stessa cosa».
Le sue parole erano soffici.
«Posso dire che oggi mi sei mancata?», sussurrai, in un certo senso, alle sue orecchie.
«Non sai proprio vivere senza di me». Il suo tono divenne sarcastico, meno intimo.
«Ti posso vedere domani?»
«Devo pensarci...».
I suoi respiri mi mandavano in confusione la mente, era droga pura.
«So che fai la sostenuta perché hai paura di perdere la testa, modestamente ti capisco», rise per la mia battuta, ma per me avevo fatto centro. Si teneva ben salda dentro la bolla che si era creata, tutto fuorché essere ferita; eppure c'era qualcosa che mi diceva che mi stessi sbagliando, non pensavo fosse solo quel bel visino angelico, più che altro era due parti della luna.
«Voi maschi siete tutti degli stronzi», volevo controbattere, ma la sua voce mi sciolse.
«So della tua fama, Davide, però devo dire che come amico sei perfetto», aggiunse.
«Non posso dire lo stesso di te, Sofia».
La immaginavo imbronciata mentre malediceva le parole che non pronunciò, con quel nasino arricciato e l'espressione buffa.
«Questo è uno dei motivi per cui non potrai mai essere il mio fidanzato».
«Dammi tempo ricciolina, ti vengo a prendere». Mi accesi una sigaretta guardando fuori dalla finestra, era tutto molto tranquillo, anche in casa mia risuonava un piacevole silenzio inaudito.
«Ti sbagli se pensi di riuscire a prendermi».
«Non mi sfidare perché so giocare sporco. Tu sei già innamorata pazza di me. Smettila di convincerti di sciocchezze».
«Stai usando troppi termini senza sapere il significato».
«A no?»
«Dimmi cosa significa: "essere innamorati"».
«Forse non so definirlo, ma tra di noi c'è qualcosa e non puoi negarlo».
Tirò nuovamente fuori la storia di Denise, lo poneva come ostacolo tra noi due, come se Denise avesse potuto ucciderla facendo un passo verso me.
«Vorrei un gelato», disse ed io sorrisi, era un'affermazione strana da fare nel cuore della notte.
«Che gusto ti piace?»
«Scontato dire: "cioccolato?"» «Non troppo».
Gettai via la sigaretta e mi stirai, con il telefono contro l'orecchio e gli occhi chiusi. Immaginavo di averla al mio fianco, a sussurrarmi tutto ciò che aveva voglia di raccontarmi, in una serata come quella i peccati se li sarebbe portati via la brezza notturna.
«Domani ti porto a prendere un gelato, d'accordo? Questo almeno lo puoi accettare o devi pensarci?» «Accetto!».
Sospirai, ero felice, stavo riuscendo a disarmarla poco per volta.
«Vado a dormire. A domani, Davide».
«A domani, Sophie».
Sentii la sua risatina ed immaginai le sue guance inarcate, avrei voluto morderle, confesso. 

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