Capitolo 10

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Davide

Era completamente sparita, si era fatta sentire dopo due giorni con un singolo messaggio in cui diceva di vederci.
Da quando ero arrivato a casa, ed aver scambiato quei messaggi così freddi con lei, non riuscivo a chiudere occhio.
Mi accesi una canna per far fronte alle paranoie, ma questa mi portò solo complicazioni ed idee contraddittorie, passando dalla paura nel buttarmi a sentimenti spiegati in un mare sconosciuto, alla voglia matta di starle accanto nonostante la distanza tra i nostri due mondi, apparentemente così diversi, che ci separava.
E non capivo cosa c'era in lei che mi avesse colpito in pieno, come una nave che scagliava bombe ad un'altra riuscendo ad affondarla. Navigavo senza vela sui suoi sorrisi veri, lasciandomi trasportare, sempre e comunque, da lei.
Forse avrei dovuto essere più sincero con me stesso, dell'amore non avevo mai avuto una solida e concreta idea ipocrita, bensì mi ero sempre nascosto dietro quel pensiero.
Non dovevo, non potevo, cedere a provare delle emozioni così forti, indossavo una maschera, uno scudo, per non lasciar passare niente, ma forse, la verità, era che fin ora aveva funzionato perché non avevo mai provato seriamente niente per nessuno.
Oltre alla passione fisica, oltre a ciò che c'è dopo la carne e alla materializzazione dell'idea dell'amore, non avevo mai sentito delle mani che toccassero la anima spoglia, nonostante il mio corpo fosse completamente vestito.
Temevo l'amore.
Tutta questa storia mi faceva pensare alle parole di quel figlio di buona madre di Valerio, lui lo sapeva sempre, vedeva cose in me prima ancora che io stesso potevo rendermene conto.
Le mie labbra un po' in carne aspirarono vicino la cartina accesa, consumata, quasi giunta al filtro, con un forte rammarico nel cuore mi accorsi che l'avevo quasi finita, come se fossi seduto dal terapista e questo mi stesse indicando il sofisticato orologio al polso mostrandomi il tempo quasi scaduto, rimandando i miei problemi alla prossima seduta.
Ed il dolore tale e quale nel vedere ciò che mi piaceva assaporare finito, mi fece associare lei ad una droga, in grado di recarmi benessere ed estasi, non riuscendo ad accettare il fatto che mi stesse facendo del male senza essere la mia donna. Volevo più della dipendenza, volevo passare all'abuso incontrollato della sua pelle, della sua anima e della sua intelligenza.
Mi faceva male quando scompariva per giorni eppure la perdonavo sempre, perché il dolore poi, lo compensava con la sua presenza.
Mi addormentai assolvendo i miei pensieri.

Le mie pupille si restrinsero alla vista della forte luce dorata del sole che trapassava la finestra, Scesi le scale, barcollando un po' con gli occhi discretamente aperti e i muscoli a fior di pelle.
Mi sedetti sullo sgabello bianco in cucina, poggiai i gomiti sul bancone e portai le mani sul viso per strofinarmi gli occhi, grattando di tanto in tanto il ciuffo scompigliato.
«Buongiorno!», esclamò mia madre, teneva con due mani la sua tazza bianca piena di latte macchiato, in piedi contro il bancone della cucina, vicino al lavello.
Ricambiai il saluto, continuavo a strofinarmi il viso.
«Vedo che hai dormito molto stanotte».
Mi guardava amorevolmente dopo aver detto quella frase sarcastica. Mi ricordò le ore sveglio a contare quelle rimanenti per l'alba; le ore passate a pensare, a rigirarmi nel letto, ad immaginarmi lei accanto a me. Dio quanto avrei voluto averla accanto, anche solo per un po'.
La guardai mostrando le mie evidenti occhiaie nere sempre più marcate.
Mi resi conto di una cosa, io fumavo per dormire, ma allo stesso modo, il pensiero di voler fumare mi teneva sveglio, creando un circolo vizioso caratterizzato dalla assuefazione di qualcosa che effettivamente non mi serviva, ma che ripetutamente ci ricascavo, finendo poi per respirare tramite il tabacco mischiato con altre sostanze per affrontare la vita di tutti i giorni e che avrei potuto ugualmente sostenere da lucido.
Ed era un po' che non ero lucido.
«Che faccia!», accurò per la seconda volta.
Non sapevo il perché, ma la mia faccia distrutta la divertiva.
All'improvviso squillò il suo cellulare sul bancone.
Ci avvicinammo entrambi per vedere chi fosse, il numero non era stato salvato.
Ci guardammo negli occhi, i nostri sguardi così simili. Le tremavano le mani, le si vedevano le vene muoversi nervose sotto la pelle, così le poggiai la mia mano sulla sua, per tranquillizzarla, ma non fu semplice neanche per me.
Sfilai il telefono da sotto la sua vita e risposi:
«Che vuoi!?».
La mia voce salda squarciò il silenzio terrificante che aveva gelato l'aria e le nostre anime paralizzate.
«Davide, ciao!», rispose, era mio padre, con quella sua voce maligna accompagnata da una risata.
«Non chiamare più».
Mi tremava la voce e non riuscivo a controllarlo, cercai di poggiarmi una mano sulla gola e di fare respiri lenti.
«Veramente speravo mi rispondessi tu, ho qualcosa da dirti...».
Sentivo il fumo che buttava dalla bocca, il rumore era così limpido che quasi lo immaginavo davanti a me, con quella sua solita Chesterfield rossa che inondava le stanze di puzza, appannando la vista ed ingrigendo la casa, ma d'altronde, la sua presenza era già oscura.
Fumava in continuazione, accendendo la sigaretta dopo con la cenere ancora accesa di quella prima, placando così la sua insaziabile voglia di sostanze più forti, ma costose e che spesso non poteva comprare per la mancanza di denaro; e la teneva con quelle sue dita scure e rugate malgrado la giovane età, con le unghie appena sollevate ed ingiallite, in cui dall'attaccatura con la pelle si intravedevano le macchie viola dei lividi poiché l'eroina la iniettava proprio da lì.
«Dimmi!», cercai di gelare il sangue che mi scorreva dentro le vene.
«Verranno degli uomini a cercarti... devi pagare un mio debito. Ho riferito loro che avresti pagato tu per me...»
«Ma di che cazzo stai parlando? Non ti farò mai un favore del genere!»
«Ti ripagherò!».
Mia madre si incuriosiva sempre di più, si avvicinava a me e provava ad ascoltare la chiamata, ma non glielo potevo permettere. Scappai in giardino, le feci capire di aspettare in cucina.
«Va bene, facciamo così: io ti faccio questo favore e tu in cambio sparisci dalle nostre vite; niente: chiamate, messaggi, visite indesiderate... niente di niente, Intesi?!»
«Mmh... mi odi così tanto eh!? Comunque d'accordo! Affare fatto!».
Tossì un paio di volte prima di darmi la sconvolgente notizia:
«Allora prepara ottocento euro e cerca di non farti spezzare le gambe...».
Rimasi con la bocca aperta ed il telefono poggiato all'orecchio, immobile con il vento che passava attraverso gli alberi, con il vento che mi partiva da dentro e coinvolgeva ogni cosa.
Sentii dei brividi freddi gremire il mio corpo, le mani mi sudavano e la mia gola sembrava stretta da due mani.
«Ottocen...», interruppi il sussulto mangiandomi la parola, morsi le labbra fino a farle diventare viola, ricordandomi di non farmi sentire da mia mamma, poi bisbigliai:
«Ottocento euro! Ma dove cazzo li prendo?!
«Non è un mio problema! Abbiamo un accordo.Verranno tra due giorni».
Mi staccò lasciandomi senza aria nei polmoni e con la responsabilità più grande che fino ad allora avessi potuto prendere in carico.
Ancora una volta mio padre, anche se a distanza, mi stava rovinando la vita, come una malattia terminale, che ti consuma, giorno per giorno, facendoti convivere con la morte che ti fiata sul collo.
Tornai in cucina cercando di nascondere l'espressione terrificata che il mio viso stava assumendo.
«Quindi?», domandò mia madre.
«Tutto risolto! Non chiamerà più».
Emisi un sorriso triste, ma lei non se ne accorse, mi credette sulla parola e corse verso me stringendomi forte.
«Sei il ragazzo più forte che abbia mai conosciuto! Hai coraggio da vendere figlio mio. Ti voglio un mondo di bene», disse.
Mi abbracciava, baciandomi ripetutamente la testa e tenendomi per le braccia; mi stava bagnando la maglietta per lacrime di gioia, ma io, non riuscii a fingere quell'allegria, il mio abbraccio ricambiato era debole ed il peso sul petto infinitamente pesante.
Uscì dalla stanza più felice che mai, dicendo che avrebbe voluto festeggiare andando tutti insieme a cena in qualche locale, mentre io meditavo su come trovare quei maledettissimi ottocento euro in così poco tempo.
All'improvviso mi ritrovai in una terra che prendeva fuoco e nessuno in grado di farmi uscire da quell'anello di fiamme in cui ero prigioniero.
Tornai in camera e mi lasciai andare sul letto.
D'un tratto sentii bussare alla porta.
«Posso entrare?», domandò una vocina dolce.
Era mia sorella Francesca venuta a chieder venia, mi trovò in un momento così delicato, che mi sarei arrampicato su una lastra di rovi pur di avere qualcuno accanto.
«Entra e chiudi la porta» risposi.
Quando la aprì rimase sull'uscio con i muscoli in tensione, tenendo i pugni chiusi ed il capo basso.
Continuai a mantenere ancora per un po' l'aria offesa.
Dalla mia posizione coricata con le gambe e le braccia aperte passai a sedermi con la schiena sulla finestra chiusa ed i piedi a penzoloni verso il pavimento.
Lei sbigottita si avvicinò a me come una preda che entrava nella tana del predatore.
«Mi posso sedere?», domandò indicando il letto.
Con le braccia incrociate al petto le sollevai le spalle ndifferente poi, con gli occhi bassi, le dissi di sì con il movimento della testa. Il letto mandò una piccola onda dalla parte dove si sedette fino al mio posto, non eravamo molto lontani, infatti riuscivo a sentire il piccolo fosso che si era creato sul materasso.
«Hai ragione ad essere arrabbiato! Non dovevamo tenertelo nascosto e sappi che Valerio fin da subito aveva pensato di dirtelo, ma ha sempre evitato per paura di una tua brutta reazione. So che così è stato peggio, lui lo rimpiange molto e anch'io, ma non si può ignorare il sentimento quando c'è», spiegò.
Mi girai per guardarla, rilassai le spalle, poi presi parola:
«Lui ti piace?»
«Si, tanto»
«Ti tratta bene?»
«Si, è sempre molto gentile!»
«Allora sono felice per voi».
Accompagnai la mia sentenza con un sorrisino stampato in viso.
«Grazie! Grazie! Grazie!».
Emise dei piccoli urletti gioiosi e mi abbracciò stringendomi forte.
«Parlerò con Valerio e chiarirò con lui. Dai, da un lato sono contento che sia lui il tuo fidanzato, mi fido e so che persona sia», risposi.
«Si! Parla con lui che è disperato senza di te!».
Non appena Francesca uscii dalla stanza chiamai Sophie, non volevo passare altro tempo senza lei.
«Pronto», rispose quella bella ragazza dai riccioli bruni che in quei giorni aveva deciso di far diventare il suo cuore di ghiaccio, alitando il freddo proveniente da esso in ogni parola nei miei riguardi.
«Hey! Ma... ecco... sei libera adesso?».
Stavo odiando il fatto che, da quando si fosse introdotta nella mia vita, la mia parte stronza fosse andata a puttane.
«Si. Solito posto!», proclamò infastidita staccando successivamente la chiamata senza neanche aspettare una mia risposta, ma non le dieti più di tanta importanza, il fatto che avesse accettato l'incontro imminente era già un passo avanti.
Quando arrivai ai piedi di quella chiesa, trovai già lei seduta sugli scalini con l'espressione pensierosa e nervosa, senza un filo di trucco, ma bella che solo Dio sapeva come fosse possibile.
«Hey», dissi, mi facevo spazio tra i suoi pensieri.
Continuò a guardare dritto, ignorando che io fossi lì con lei, poi girò la testa facendomi sparire dalla sua visuale e in silenzio restò.
Mi sedetti comunque con un po' di prepotenza al suo fianco, ma quando la mia mano sfiorò per sbaglio il suo esile braccio, un brivido le corse lungo il corpo, facendola rigirare di scatto, con il viso a poca distanza dal mio.
Immerse i suoi occhi nei miei per qualche millesimo di secondo, a me sembrò una vita intera; poi con un saltello si spostò, lasciandomi freddo e indegno della sua compagnia.
«Sophie... parlami!».
Il fumo del bollore del suo sangue in escandescenza le usciva dalle narici, inasprì lo sguardo, fissava un punto innanzi a lei, poi ruppe il suo silenzio logorante:
«Parlarti? Non ti meriti niente! Mi dispiace tantissimo perché io nella nostra amicizia ci credevo e mi piaceva parlare con te! Ti ho messo più volte le mie emozioni nelle mani aprendomi in discorsi importarti. Sei solo uno stronzo che pensa solo a vantarsi con gli amici... siete tutti uguali!».
L'odio le stava divorando il cuore, mentre con gesti tremanti si asciugava le lacrime cristalline che sorgevano dai suoi occhi oramai rossi.
«Ma di che stai parlando?»
«Vaffanculo Davide! È inutile che fingi, me l'hanno raccontato».
Si alzò di fretta e furia per andare via, ma non glielo potevo permettere, la seguii braccandola come un giocatore di football.
«Lasciami andare!»
«No! Non se ne parla! Tu ora mi dici chi cazzo ti ha raccontato queste cose e soprattutto cosa ti ha detto?!».
Tremavo dalla rabbia e dalla paura di perderla per errori che non avevo commesso.
«Mi hanno aperto gli occhi! Mi hanno mostrato ciò che sei! Ti posso dire una cosa? Quelli che si vantando di essere stati con ragazze, a prescindere che sia vero o no, non sono uomini, sono degli esseri rivoltanti che credono di essere dei grandi per aver conquistato una ragazza che magari in determinate situazioni gli ha messo il cuore e se stessa, che per una volta nella sua cazzo di vita si è presa si coraggio e nonostante i mille disagi che porta addosso ha fatto ciò che le indicasse il cuore. Si perché il sesso, o ciò che è collegato, non è solo passione occasionale e amore materializzato, se c'è il cuore è molto più di quanto immagini. Vergognati!».
Gelò le ultime lacrime impedendogli d'uscire, mi passò accanto dandomi un colpo di spalla, ancora una volta mi regalava un altro sinonimo di disprezzo, mi stava facendo sentire uno schifo, nonostante io non mi fossi mai vantato ne di lei ne di nessun'altra ragazza.
«Per quel che vale... » dissi guardando il vuoto e, mentre ci davamo le spalle, sentii il suo passo arrestarsi; ed eravamo fermi con le nostre schiene che si guardavano come i due pistoleri che, da schiena contro schiena, contano dieci passi camminando coordinati in direzioni opposte.
«...con le ragazze sono sempre stato stronzo, fino in fondo, ma non mi sono mai approfittato di loro o vantato dell'intimità che c'era stata tra noi. Trovo schifoso l'atteggiamento ostentativo di noi ragazzi nella conquista di una ragazza e nel vanto di essere riuscito a portarla a letto. Ciò che succede sotto le lenzuola o, per buttarla lì, a cielo aperto, in qualche posto nascosto, resta tra me e la ragazza con cui ho condiviso il momento».
I due pistoleri, dopo aver terminato i dieci passi, si devono girare velocemente per sparare per primi e vincere, e fu come se nel duello ad avere i riflessi pronti era proprio lei e il suo gesto di andarsene, metaforicamente, fu la pallottola che nel mio petto la proclamò vincitrice.
Tutto il tempo della strada di ritorno pensai a come in uno schiocco di dita, due persone così importanti per me, si fossero dissolte nella mia vita come cera diventata trasparente dal calore della fiamma.
Pensai a Valerio e a quanto fossi stato stronzo con lui, avrei voluto chiamarlo, ma non lo feci, marciai tutto il tempo a capo basso, con le mani intrufolate nelle tasche, il sole che picchiava come un pugile e un enorme senso di colpa inchiodato alla gola.
Il destino e il suo umorismo satirico vollero far passare Valerio proprio da quella strada in cui stavo camminando.
«Vuoi un passaggio?», domandò Valerio abbassando il finestrino del lato passeggero ed accostandosi al marciapiede.
Lo guardai cercando perdono sul suo sorriso amichevole.
Annuii con il gesto della testa ed aprii lo sportello sedendomi sul sedile di fianco al suo.
Lo guardai con il fiato sospeso, cercando le parole giuste per ringraziarlo e scusarmi, emisi a breve termine mezza frase:
«Senti Valè... »
«Si anche a me dispiace, abbiamo sbagliato entrambi, ma ora è tutto risolto!».
Mi tolse le parole di bocca, rimasi un po' stupito, ma felice, la nostra intesa ed empatia era qualcosa di inspiegabile a parole.
«Che ci facevi per strada da solo e sotto il sole?», domandò sfilando il pacco di sigarette dallo scompartimento affianco al suo sedile gettandomelo addosso.
«Ti ho comprato le sigarette, Marlboro gold giusto?», aggiunse.
«Si... grazie!».
Non aveva fatto niente di particolare, ne tanto meno mi aveva comprato qualcosa di costoso, ma erano quei gesti che rendevano la nostra amicizia quel che era.
L'attenzione nei dettaglia nel quadro di un pittore dice più di mille parole.
«Ho litigato con Sophie... crede che abbia messo delle voci in giro. Ti giuro Valè, non l'ho mai fatto!», continuai accendendo la sigaretta.
«Ti credo fratellino! E vabbè con tante ragazze che ci sono e che vorrebbero stare con te perché perdere tempo dietro Sophie? Lasciala perdere»
«Cosa?! Ma non se ne parla neanche! È qui dentro ormai», dissi picchiettando con le dita le tempie
Mi sorrise sorpreso dalla mia faccia in estasi ed immersa nell'immagine perfetta di lei e del suo caratterino pungente.
Più mi respingeva e più sentivo un'attrazione incontrollata nei suoi riguardi.
Dovevo scoprire, a tutti i costi, chi fosse stato a mettere in giro quelle voci inventate su di me.
«Forse provo davvero qualcosa...»
«Da cosa lo deduci?».
Il rumore dell'auto in moto riusciva a tenermi fuori dai miei pensieri, facendomi raccontare lucidamente ciò che avevo visto in lei, senza perdermi dentro la mia testa.
Sbuffai un tiro leccandomi successivamente le labbra ed accurai:
«Non dormo la notte perché sto sveglio a pensarla»
«Si chiama chimica! Non fartela scappare».
Annuii con piena approvazione, poi intravidi il cancello di casa e mi preparai alla discesa.
Ci salutammo dandoci una pacca sulla spalla, fu l'unico momento felice che precedette una catena di disastri irreparabili.
Ero arrivato alla fine del tunnel buio ed avevo trovato un vicolo cieco, ma non demorsi, toccare il fondo era il primo passo per tornare in superficie.
Arrivai in sala da pranzo alle 13:00 in punto, trovai il tavolo ben apparecchiato, con un enorme pollo al forno fumante al centro tavola ed attorno i piatti con le rifiniture in oro del corredo di nozze dei miei, che mia madre non aveva mai usato per paura di rovinarli.
Il profumo del buon cibo si sposava perfettamente con i volti felici delle tre donne di casa, che spensierate e gentili si passavano le bevande ed il pane. Ed io lì, immobile, seduto a capo tavola con una lattina di Coca-Cola ghiacciata vicino a me e l'impressione di essere finito in una specie di Natale estivo.
Provavo a fingere un sorriso, ma mi si leggeva in faccia che i drammi stessero prendendo il sopravvento.
All'improvviso sentii una forte ansia che mi scuoteva il cuore e mi picchiava il torace, minacciando una sensazione di vomito che mi solleticava la gola.
Mentre il mio corpo era impalato, quasi paralizzato, nella mia mente stavo facendo un casino tremendo. Dentro me urlavo tormentato, piangendo come il bambino che ero e che cercavo disperatamente di dimenticare, con il risultato di rivedere, ancora una volta, fiumi di sangue scorrere da antiche ferite mai sanate e mal medicate.
«Preghiamo a Dio e rendiamo grazie per questo suo piccolo miracolo...», sostenne mia madre con le mani giunte, così come le mie sorelle, non sapendo che il miracolo lo stavo per compiere io.
Non mangiai quasi nulla, anche l'acqua mi restava appesa in gola scendendo giù a fatica.
Mi alzai silenzioso dal tavolo, mentre mia madre e le mie sorelle chiacchieravano allegre, ignorando la mia presenza cupa.
In quei giorni ero a pezzi scomposti, in parti di cuore spezzati, sparsi tra legami ed anime infrante. Ognuno di noi si immagina il "toccare il fondo" in modo differente, io me lo sono sempre immaginato come l'abisso dell'oceano, con tutto buio attorno a me ed una luce che fioca mi illumina.
Il gruppo di whatsapp con i miei amici era intasato di locandine per la serata che c'era in una discoteca; accettai senza esitare, volevo staccarmi dai miei pensieri.
Alle 23:00 chiusi il cancelletto di casa con il piede, mentre sfilavo una sigaretta dal pacchetto che finalmente accesi.
Non fumavo a casa, mia madre sapeva del vizio, mi vergognavo solo all'idea di porre la sigaretta in bocca davanti i suoi occhi.
Sbuffai qualche tiro con l'ansia che si aggrappava a me, mi toccavo nervosamente le labbra e camminavo in cerchio fissando il terreno. Vidi in lontananza due fanali bianchi in led, capii subito che si trattava di Valerio, così gettai il mozzicone e strofinai le mani sudate, per lo stress, lungo i jeans chiari un po' strappati.
Salii in macchina già nervoso per essermi accaparrato i sedili posteriori anziché quello anteriore.
«Hey Davide!», esclamò Leonardo.
«Ciao» mormorai.
Tacque subito dopo, rimangiandosi il respiro.
«Una mora mi ha chiesto di te!», affermò Valerio guardandomi dallo specchietto retrovisore ed ammiccando.
«Chi?»
«Non te lo posso dire!»
«E dai Valè!».
Mi fece riflettere, il primo pensiero andò, non so per quale motivo, a Giulia; quella tettona dagli occhi scuri.
Da quanto ci eravamo baciati non aveva fatto altro che intasarmi il telefono di messaggi, io che non avevo ne testa ne cuore per lei.
«Ok, ti do un indizio... ha i capelli a corti»
«Ho capito di chi si tratta!».
Stranamente la mia testa però non riuscì a staccarsi dall'immagine dell'amica, la bionda, Jasmine, sensuale e un po' volgare per certi versi.
Arrivati in discoteca, poco dopo aver pagato l'ingresso, incontrai Federico al bancone dei cocktail che luccicava per il sudore che traspariva dalla maglia nera attillata che gli contornava quel poco di pancia che aveva messo.
Mi avvicinai per salutarlo, forse essergli amico mi avrebbe fatto scoprire qualcosa di Sophie.
«Tieni!», disse girandosi verso me ed allungando una delle due mani che sorreggevano i cocktail ed aggiunse:
«Ti ho visto da lontano ed ho pensato di offrirti qualcosa. È un Campari-gin, so che ti piace!».
Rimasi qualche secondo sbigottito da quel sorriso ubriaco che non mi appariva tanto sincero, ma accettai il gesto ed afferrai il bicchiere con del liquido rosso, tipico.
Mentre bevevo iniziai a sentire sensazioni strane, all'improvviso si muovevano tutti a rallenti, così come le luci e la musica, che divenne un ronzio opaco che risuonava nelle orecchie. Camminavo a passi pensati, quasi non riuscivo ad alzare le gambe per sferrare i piedi e condurli dai miei amici.
Sentivo che i muscoli stessero abbandonando il mio volto, come nel quadro di Salvador Dalì con gli orologi sciolti che quasi scivolavano sul terreno, in una visione molle e sudata, persino angosciata oserei dire.
Il tempo che da nostro amico si può trasformare nel peggior rivale.
Avevo indossato quel favore, ormai diventata responsabilità, come un cappio attorno al collo, ed in questa corsa contro le lancette, dove il tempo mi sfuggiva dalle dita, correvo disperato con i minuti e le ore che rischiavano di schiacciarmi.
Sentivo le gambe cedere ad ogni passo, così mi poggiai su uno dei divanetti colorati del locale, ma non rimasi a lungo solo, presto una ragazza si sedette al mio fianco.
«Sei messo proprio male!» ,accennò la bionda afferrandomi il viso.
«Hey! Ma io ti conosco... tu sei»
«Jasmine! Si proprio lei».
Bevve un sorso del mio drink mentre io dimenticavo, in ogni istante, ciò che fosse successo l'attimo prima.
«Se sei qui per parlarmi della tua amica puoi anche andare».
Ruttai la sostanza ingerita, poi mi stirai con la schiena sulla spalliera del divanetto, lasciando le gambe aperte e con la poca forza che avevo, le fondai sul pavimento in mattonelle specchiate.
«Mmh... no! Ti sbagli, sono qui perché ho voglia di te... solo per una notte, niente di impegnativo...».
Si guardò attorno muovendo le iridi così velocemente che sembrava tremassero, poi si rigirò nuovamente da me, mi salì addosso, poggiando le sue chiappe sulle mie gambe e scalandomi l'addome con le mani come una gattina.
Mi afferrò il colletto della canotta blu elettrico che indossavo e mi tirò ancora più vicino a lei, portando il mio viso vicino il suo ed io le ammanettai lo sguardo con il mio.
Le mie pupille si ingrandivano e restringevano a ritmo della musica a palla che risuonava in tutta la discoteca, il mio corpo e la mia mente erano proiettate sul momento, non pensavo ne a cosa fosse successo prima e ne a cosa sarebbe potuto succedere dopo, ero concentrato solo su di lei.
Si toccò il labbro inferiore con l'indice, mostrandomi la piega interna della bocca carnosa risaltata dal lucida labbra, io stirai gli occhi e le bisbigliai all'orecchio:
«Cos'hai intenzione di fare biondina?».
Le accarezzai la ciocca bionda che le era finita davanti al viso portandogliela dietro l'orecchio, mentre guidavo deciso con una mano sulle sue curve, come un pazzo in stato d'ebrezza, mantenendo sempre e comunque il contatto visivo.
Nel mentre scendevo con le dita sentii il suo cuore che colpiva il petto come se volesse scappare, fu la causa del mio sorrisetto malizioso.
Continuando la discesa del suo corpo mi fermai sul culo, che strizzai forte come una pallina anti stress.
La vidi sussultare eccitata e anche un po' sorpresa, poi si avvicinò al mio orecchio e sussurrò:
«..ci divertiamo un po', tutto qui, e non lo diremo a nessuno, che dici?»
«Dico che si potrebbe fare».
Sudavo dal calore che ci stava abbracciando, in quella caotica discoteca piena di corpi che avevano mandato l'anima a farsi benedire, bevendo tutto ciò che il corpo avrebbe potuto assorbire.
Lei ricambiò i miei sorrisi pervertiti, tirandomi successivamente giù dal divanetto fino all'uscita della discoteca, a quel punto salimmo sulla sua Smart bianca nuova di zecca.
L'alcool scorreva nelle mie vene ad alta velocità, si alternavano momenti di lucidità ad attimi di completa confusione e di tanto in tanto mi chiedevo come fossi finito su quell'auto.
Canticchiava canzoni e stringeva le mani sul volante come se fosse il corpo di qualcuno, così passionale che girava il capo leccandosi le labbra per placare la voglia matta di scoparmi.
Arrivammo nel condominio in cui abitava, scendemmo dalla macchina, lei legò i capelli ed io cercai di restare in piedi.
Giunti davanti la scalinata mi guardò sorridendo e togliendosi i tacchi disse:
«Abito al quarto piano», lì capii il perché della sua risata.
Fissai la rampa di scale e i gradini infiniti che si rimpicciolivano ai miei occhi; sulla porta dell'ascensore c'era scritto che era fuori servizio, perciò non avevo altra scelta.
Le attorniai il mio braccio sul collo, lei strinse il suo alla mia vita e sorreggendoci a vicenda cercammo di arrivare sani e salvi al piano in cui abitava.
«Come mai hai scelto di abitare proprio al quarto piano?», le domandai affannato, stringendo la mano sulla ringhiera in ferro.
«Pensa un po' che volevo abitare al settimo, ma il prezzo del quarto era più accessibile».
Ci fermammo sullo zerbino con i gatti posto davanti al suo appartamento, mentre lei cercava le chiavi lanciai un'occhiata in giro.
«Eccola!», annunciò tirando fuori la chiave dalla sua borsetta in pelle fucsia, la entrò nella serratura e girandola mi guardò con quei suoi occhi grandi, mi sembrarono quelli di Sophie.
Le afferrai il viso ed iniziai a baciarla senza sosta, intanto entrammo dalla porta sbattendola rumorosamente.
Mi saltò addosso, io le afferrai le natiche morbide e piene, poi la gettai sul divano; mi sfilò i jeans ed io il reggiseno in pizzo abbinato al perizoma.
Avevamo avuto il tempo di entrare che non so come era già completamente nuda, con i capelli legati e la pallida pelle in risalto sul divano marrone.
Le afferrai i capelli incitandola a farmi qualche gioco con la lingua, lei mi sorrise e dopo un assaggio dell'inizio, dammo il via ad una nottata intensa, immersi l'uno dentro l'altro.

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