Capitolo 7

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Sophie

La brezza mattutina mi accarezzava leggermente il viso, era piacevole nonostante fosse stata la causa del mio risveglio dopo qualche ora di sonno.
Il sole timidamente attraversava il vetro della finestra ed io lo accoglievo, anche se fastidiosamente rifletteva nei miei occhi azzurri.
Ero felice.
Non sapevo descrivere la felicità, per quanto mi risultasse ero più brava con la tristezza, forse perché la reputavo più sincera.
La avvertivo dalla gradevole sensazione della convivenza con me stessa, con il mio corpo; per la prima volta, dopo molto tempo, stare nella mia pelle era qualcosa di magnifico, non volevo scappare e non volevo coprire ogni specchio presente in casa. 
Inconsciamente qualcuno mi aveva aiutata, la sua attenzione perspicace, il suo modo di farmi sentire la più bella al mondo mi aveva risollevato da una fossa di sabbia nel deserto del Sahara.
Mentre scendevo le scale, con la testa tra le nuvole, le urla provenienti dalla cucina mi fecero rinsavire.
Rimasi sullo scalino con la mano aggrappata alla ringhiera, i miei genitori stavano litigando, non mi stupiva, ma sembrava stessero esagerando.
«Dove sei tu per i tuoi figli? Sei un fantasma. Stanno crescendo senza un padre, lo capisci?!» gli urlava mia madre.
«Io mi spacco il culo! Lavoro anche in estate per mantenere il tenore di vita che abbiamo! Sono costretto a fare tutti questi viaggi, secondo te non mi piacerebbe starmene in riva al mare senza fare un cazzo?!» ribatteva mio padre.
Mia madre al solito esagerava con quelle frasi pesanti e mio padre non la risparmiava con quei modi maleducati. Mi iniziò a vibrare l'occhio, tipico quel mio tic che ogni tanto si ripresentava quando mi sentivo sotto stress. Ci fu un attimo in cui non li sentii più parlare, pensai che avessero finito la discussione, così mi recai in cucina.
«Ciao Tesoro! Vuoi che ti faccia il cappuccino?» mi chiese mamma.
La sua voce era straziata dalle urla, le sue dita tamburellavano con decisione il bancone della cucina. «No mamma! Prendo solo una brioche, grazie lo stesso».
Continuai ad osservarli, nessuno proferiva parola, nessuno si azzardava a muovere un passo o a fare la prima mossa; eravamo sospesi su un filo collegato tra due grattacieli di New York, con il rischio che al primo gesto, anche di un solo dito, ci saremmo potuti schiantare.
«Vado in aeroporto. Ciao amoruccio!». Mio padre si avvicinò a me dandomi un bacio in guancia ed evitando completamente mia madre che lo scherniva, il suo volto così severo e gelido, le sue pupille cioccolato tagliate dalle palpebre.
«Ciao papà! A presto!».
Lui mi guardò, mi fece un amorevole sorriso ed uscì dal portone a capo basso.
«Mamma tutto ok?»
«Sì. Ascolta, non ci sono a pranzo, torno nel pomeriggio tardi, ho degli impegni da sbrigare», rispose con gli occhi lucidi, poi si mise gli occhiali da sole, la borsa in spalla e anche lei si avviò verso la porta d'uscita. Non c'era nessuno in casa: mio fratello era a Milano, papà era appena partito e mamma sarebbe stata fuori tutto il giorno. A me non andava di pranzare sola, così invitai Francesca e Ginevra.
Arrivarono insieme.
«Hey!», esclamò Ginevra entrando dal cancello di casa mia, seguita da Francesca che correva verso di me con quelle sue guanciotte scottate dal sole.
Ginevra si sedette sul bancone in cucina e spacchettò il pacco delle patatine che aveva trovato nella mia dispensa.
«Non so che mettere stasera! Ogni volta è una sfida», farfugliò Ginevra mentre masticava.
«Io credo di mettere il vestito fucsia», rispose Francesca.
Mi avvicinai a loro per prendere una patatina e pensai quanto poco mi andasse di uscire.
Avrei voluto sapere se Davide fosse uscito, se andava nello stesso posto dove dovevo andare io, se il vestito che avevo in mente gli sarebbe piaciuto.
Pensavo che dovessi imparare a mascherare i sentimenti che mi trasparivano dagli occhi, ma sapevo che dopo qualche calice di vino non avrei più smesso di ridere alle sue battute come una sciocca innamorata; no che lo fossi, però su una cosa aveva ragione: tra noi due c'era decisamente qualcosa.
«Sophie! Che pensi?», sollecitò Francesca.
Teneva gli occhi puntati nelle mie palpebre dalle ciglia scombinate, affilava lo sguardo per sondare i miei pensieri, capii che stava iniziando ad indagare sul mio comportamento.
«Sto pensando se indossare il vestito blu o il tubino nero. Voi che dite?»
«Tubino nero super sexy», esclamò Ginevra.
«Denise come sta?» domandai.
«Non ne voglio parlare! Mi tormenta da due giorni chiedendomi se posso parlare con Davide».
Immaginavo loro due insieme e mi venivano le vertigini, come se mi togliessero l'aria.
«Denise non si fermerà mai», affermò Ginevra.
«Credo stiano facendo pace», rispose Francesca.
Non riuscii a controllare la curiosità, avevo le mani che mi fremevano e l'irrefrenabile impulso di chiamare Davide.
«Ieri sera ho sentito Davide parlare al telefono, credo fosse lei... o Giulia».
«Giulia?», domandò Ginevra.
«La ragazza con i capelli a caschetto. È molto bella, ma secondo me è antipatica».
«Davide le sa mettere in ginocchio, conosco mio cugino», fu l'ultima frase di Ginevra prima di andare in bagno per lavarsi le mani.
Dentro me si era creato un vuoto, Davide era davvero quel semplice ragazzo che diceva di essere? O un diavolo che sapeva rapirti come un oggetto prezioso?
«Come va con Valerio?», domandai a Francesca.
«Tutto bene! Ultimamente però ci vediamo pochissimo, ha paura che Davide ci possa scoprire. Lui glielo vuole dire, ma sta aspettando il momento perfetto».
«Vedrai che le cose si sistemeranno!».
«Non so che regalargli, domani fa il compleanno», sussurrò.
Non sapevo fossimo state invitate da Valerio, ciò significava che l'incontro con Davide era inevitabile. Il pomeriggio lo passai da sola, a casa. Mia madre non era ancora tornata e le mie amiche avevano i loro impegni. Odiavo quando mi lasciavano sola con me, ero l'ultima persona con cui volevo stare, significava affrontare ogni mio pensiero.
Scattate le 18:00 mi ricordai dell'appuntamento con Davide. Corsi a vestirmi, sempre di fretta, non riuscivo mai a sistemarmi come volevo. Lui era l'unico che mi vedeva in condizioni pessime.
Arrivai nel nostro solito posto, non trovai nessuno, avevo corso tanto e cambiato tre mezzi pubblici per arrivarci.
Pensai se ne fosse dimenticato.
Con il cuore in mano mi sedetti sulla scalinata della chiesa. 
All'improvviso qualcuno mi tappò gli occhi.
«Chi sono?», domandò ed io sorrisi, era lui non avevo dubbi.
«Mmh... non lo so dimmelo tu!», risposi stando al gioco.
«Il ragazzo a cui hai quasi dato buca oggi!»
«Questo ragazzo ha per caso gli occhi verdi?» «No!», rispose ed io rabbrividii.
«E allora chi sei?» 
«Il ragazzo più bello del mondo!»
«Anche il più modesto aggiungerei. Dai dimmi chi sei», aggiunsi, continuavano a ronzarmi idee strane in testa. «Davvero non lo capisci? Abbiamo parlato al telefono stanotte!»
«Cazzo Davide mi hai fatto morire di paura!». Mi tolse le mani davanti agli occhi e ridacchiò, poi si alzò in piedi, incrociò le mani dietro la schiena e piego la testa guardandomi dall'alto, io ricambiai lo sguardo e sorrisi.
«Ti ho fatto spaventare ricciolina?», domandò.
«Sì! Pensavo fossi un'altra persona...».
Si sedette al mio fianco e avvicinò il suo viso a pochi centimetri dal mio.
Dal pugno apparentemente chiuso della sua mano uscì la canna che emanava fumo.
Stava per accenderla quando me la porse davanti al viso.
«Vuoi fare un tiro?», annuii e mi passò anche l'accendino.
Sbuffai un tiro e leccai le labbra, lui mi guardava già con l'espressione rilassata. 
Iniziammo a ridere senza motivo parlando di cose assurde. Con lui non mi sentivo diversa dal resto del mondo, ero simile a qualcuno e quello mi bastava. La sua risata era contagiosa, cercavo di trattenermi, ma era così difficile.
I miei occhi si tinsero di arancione con qualche sfumatura di rosa, riflettevano il tramonto che si scorgeva davanti a me. 
Quei panorami mi lasciavano sempre senza fiato; mentre fissavo il sole poggiarsi sulla città, con i raggi che abbracciavano tutto ciò che incontravano, lui poggiò la testa sulle mie gambe e, con la faccia rivolta verso di me, mi osservava.
«Ti dedico questo tramonto», disse.
Rimasi senza parole, mi addolcii, nessuno mai me l'aveva detto. 
«Da quando sei diventato così romantico?», sdrammatizzai.
«Non posso esserlo?».
Feci un sorriso e ritornai a guardare il cielo, sembrava la prima volta che vedevo un tramonto.
«Posso confessarti una cosa?», domandai piegata leggermente indietro, con le mani sul cemento degli scalini.
«Dimmi pure».
«Spesso mi sento sola, e so che non sei il passante a cui raccontarlo senza dar peso, ma avevo voglia di dirlo». Mi prese una ciocca castana dai riflessi dorati dei miei capelli, la attorcigliò a un suo dito e rispose:
«Anch'io spesso mi ci sento».
Eravamo soli al mondo, probabilmente era uno dei motivi per cui ci eravamo incontrati, qualcuno ci aveva visto soffrire e aveva pensato di farci ritrovare in quel posto, a parlare di noi, che mai lo facevamo.
«Posso dirti un'altra cosa?»
«Certo».
Si mise seduto e mi guardò dritto negli occhi, dimenticai le parole che dovevo pronunciare.
«Nulla».
«Parlami! Ti ascolto».
Poggiò la sua calda mano sulla mia, così grande che riusciva a racchiudere il mio polso con due dita.
«Odio i discorsi troppo intimi, odio parlare di me... sono troppo complicata persino per me».
«Sofia! Se ti può consolare, sono come te».
Lo guardai arresa, in realtà quando mi chiamava così per infastidirmi un po' mi piaceva.
Gli lasciai la mano e mi avvicinai ancora di più per abbracciarlo.
Respirai a pieni polmoni il suo profumo, quel dolce e inebriante sapore di Davide.
I nostri corpi si mescolarono in quell'abbraccio così intimo che mi legò a lui più di quanto mi piacesse. Staccai di un po' il viso dalla sua spalla, ero così vicina alle sue labbra, le fissai per un po', le desideravo, ma mi fermai, cancellai quel pensiero dalla testa.
«Quando smetterai di porre resistenza», sussurrò alla mia pelle d'oca.
Il nodo in gola mi soffocò, non sapevo che dire, in preda ai dubbi mi allontanai, uscendo dalle sue braccia che mi stringevano.
«È tardi! Devo andare!», esclamò guardando l'orologio. «Sì hai ragione!».
Non aggiunse niente, mi lasciò con un timido bacio in guancia, ma prima di sparire all'orizzonte gli urlai:
«Stasera ci sei anche tu, giusto?»
«Certo ricciolina, ci vediamo lì», sorrise e si allontanò senza voltarsi una seconda volta.
Appena varcata la soglia d'ingresso sentii un forte silenzio invadere casa, così diedi un'occhiata un po' in tutte le stanze, ma mia madre non c'era, era sera e mi aspettavo che fosse rientrata, in pensiero la chiamai. «Sophie dimmi!», rispose, in sottofondo si sentiva della musica e dei calici scontrarsi, poi delle voci miste e delle risate.
«Mamma! Ma dove sei?»
«Sono con alcuni amici, torno domani amore». Era sbalorditivamente serena in voce, ma ancora non capivo questo cambio di programma così insolito.
«Ah okay! Non potevi dirmelo prima?»
«Oggi ti ho mandato un messaggio... comunque dato che non ci sono starai a casa!»
«Come stare a casa?! Ma mamma fa il compleanno un mio amico! Gli avevo detto che ci sarei andata», ribattei.
Non avevo nessuna intenzione di starmene a casa, dovevo uscire a tutti i costi, piuttosto l'avrei fatto di nascosto.
«E va bene, ma torna presto! E stanotte dormi dalla signora Gemmei».
«Mamma, no!»
Gemmei Mae-Kawa originaria di Sapporo, Giappone, sposata con il signor Andrea Perotti, un ricco uomo d'affari di Roma.
La signora Gemmei era la nostra vicina di casa, nonché madre di Edoardo. 
I genitori di Edoardo erano sempre stati molto amici con i miei, da quando comprammo la casa a Roma. Non mi andava di dormire con Caterina e Cristina, le gemelle sorelle maggiori di Edoardo. Quando ero più piccola mia madre mi ci lasciava spesso con loro, anche la signora Gemmei mi trattava come una figlia. Il mio incubo era Edoardo. I tratti giapponesi di sua madre non gli appartenevano, al contrario, era il classico ragazzo italiano con i capelli castani e gli occhi scuri, qualche lentiggine qua e là, fisico perfetto... Il suo carattere era il problema. Non mi lasciava in pace, mi tormentava, mi faceva sentire così inferiore; forse per lui iniziò il mio rapporto malato con il cibo. Ricordo che mi ripeteva che avevo delle cosce di pollo al posto delle gambe.
Ogni estate, quel bambino con le fossette sulle guance mi aspettava fuori dal cancello di casa per sottolineare i miei difetti; imparai ad incassare i colpi, così quando si fosse ripresentato davanti a me avrebbe potuto dire la cosa più cattiva che la sua lingua avesse potuto sibilare, ma non mi avrebbe mai più toccato il suo veleno.
Ogni volta che alla nostra porta si presenta un problema rimpiangiamo quello precedente. Ogni volta. E pensiamo che quello sia il dolore più forte che potessimo mai affrontare, che né i problemi passati né quelli futuri potrebbero mai competere. Ci dimentichiamo di tutto e va così; un circolo vizioso in grado di farci soffrire ogni volta come la prima.
La mia psicologa fu convincente nel suo discorso, mi disse di non impressionarmi prima di pronunciarlo. Io me ne stavo su quella sedia con le occhiaie nere, aveva messo uno specchio accanto alla sedia dei suoi clienti, e ogni volta che entravo mi diceva prima di guardarmi e di dirle cosa vedessi.
Ricordo che un giorno ero esausta ed iniziai a dirle di coprire lo specchio, ero nervosa, marcia.
Lei rispose: «Toglierò lo specchio quando imparerai ad amarti».
Ma io ero dimagrita troppo nonostante delle volte mi abbuffassi.
Il discorso che pronunciò fu abbastanza severo: «Tu torni a casa e decidi di non mangiare per cena, vai in bagno per farti la doccia, ti togli i vestiti, ti guardi allo specchio e ciò che vedi ti fa schifo, guardi la bilancia e ti sembra un precipizio, ti fissi, prendi con le mani la pelle in eccesso, ti senti mille volte più grassa e pesante di un elefante, tiri il viso perché lo vorresti più magro, poi ti pesi e sei solo 45 kg, ma poi cos'è successo? Sei 45.5 kg o no aspetta 46 kg, no ha sbagliato di nuovo sei 50 kg! Stai ingrassando, stai decisamente ingrassando, ecco perché le guanciotte sono così paffute. E adesso? Prenderai peso per ogni briciola di pane che ingoierai, allora fai così: ogni volta che ti viene fame bevi così la sensazione passa e non ingrassi. Ora immagina questo: vediti in ospedale, con i tubi nelle braccia e con una labile energia di muoverti, ma sei felice perché il braccio è così esile che quasi potrebbe passare il più piccolo degli anelli, non hai la forza di aprire gli occhi, ma hey, pesi 30 kg! Vittoria! E invece no, hai sprecato la tua vita a piangere, senza mai vivere come avresti dovuto, senza mai assaporare niente... fra non molto l'elettrocardiogramma segnerà una linea piatta e non più quegli alti e bassi che il tuo cuore voleva conquistare, mentre tu ti sei spenta a causa di tutte quelle parole che ti hanno fatta morire su quella bilancia, davanti lo specchio, dove sei finita subito dopo essere rientrata a casa e aver schivato la cena. È brutto vero?».
Tacqui, sopraffatta da quel pensiero atroce.
«Se hai deciso di spegnerti non posso aiutarti, ma se vuoi vivere come dovresti, come vorresti... io sono qui».
Toccai il fondo, ma mi aiutò a poggiare i piedi per terra e darmi la spinta, avevo bisogno di quello.
Ironia della sorte? Edoardo era innamorato di quella ragazzina con "le cosce di pollo". Ed era giusto così, io avevo imparato a medicare il mio cuore, lui a farselo a pezzi.
La vita è così breve per passarla a soffrire.
Alla fine, l'avevo perdonato, eravamo amici, ma non avevo cancellato ciò che mi aveva fatto, semplicemente avevo avuto la forza di metterci un macigno sopra. Le brutte esperienze sono insegnamenti, ma sono anche dei ricordi che non devono raggiungerci. Mi infuriai con mia madre, ma alla fine vinse lei.
«Okay. Chiamo la signora Gemmei per dirglielo», risposi a mia madre.
«Sì, già lei era un po' che mi chiedeva di farti andare da lei, ne sarà felice».
Era la migliore amica di mia madre, ma io davvero non capivo come riusciva a passare dei pomeriggi con lei. Sapevo che avremmo passato la serata a mangiare crêpes, come sempre, e a parlare di Edoardo; lei sperava in un nostro avvicinamento.
«Devo staccare! Ci sentiamo quando sei a casa. A dopo amore», affermò
«A dopo mamma!».
Salii in camera, presi i vestiti che mi sarei dovuta mettere per la festa e li portai in bagno.
Aprii l'acqua facendola scorrere un po', aspettando che raggiungesse la temperatura, nel frattempo mi tolsi i capi che indossavo buttandoli nel cesto della biancheria sporca ed entrai in doccia.
Subito dopo essere uscita avvolsi l'asciugamano in testa, misi l'intimo e, strizzando per bene i capelli procedetti con l'asciugatura.
Indossai un vestitino di seta lilla, che da sempre era uno dei miei abiti preferiti, infilai le scarpe con il tacco, legai i lacci alle caviglie, stirai il vestito con le mani e andai in camera per mettere gli orecchini. Mi sedetti alla toeletta e agganciai la collana, poi passai al trucco.
Mi guardai allo specchio, concentrata su me stessa, non avevo voglia di coprire il mio riflesso, mi sarei mancata di rispetto; mi fissavo negli occhi facendo lunghi sospiri, mi sorrisi, sistemai un po' i capelli e mi innamorai di quella me che vedevo specchiata, così sicura di sé, così forte e bella.
«Sophie sei cresciuta, non sei più quella bambina che si nascondeva il viso con i capelli, che aveva paura di varcare la soglia di casa per uscire... Ormai cammini a testa alta e sei bellissima, così perfetta con tutti i lividi e le ferite che indossa la tua anima», pensai.
Presi la mia borsetta e scendendo le scale sentii suonare, era Francesca.
«Siamo in macchina con Federico», disse lei ed io annuì.
«Ciao Fede!», esclamai salendo in macchina e tirando lo sportello della sua Panda blu notte.
«Ciao Sophie!».
Il tono era freddo, quasi forzato, ma non gli diedi molta importanza, probabilmente era nervoso per altri motivi, così mi limitai a far finta di niente.
In macchina c'eravamo solo noi tre.
«Dove brinda Valerio?», domandai
«In quel locale là! Come si chiama... quello che sta vicino Trastevere! Vabbè vi ci porto e basta!»
«Va bene Fede, sei stato chiarissimo, grazie!», ironizzai. «Non ti preoccupare che il tuo fidanzato lo sa dov'è», asserì lui fulminando il mio viso dallo specchietto retrovisore, io smisi di respirare e lui se ne accorse.
«Eh? Il mio fidanzato? Ma di che parli?».
«Federico, ma sei già ubriaco e non ce l'hai detto?», ridacchiò Francesca.
In effetti c'era puzza di alcol, i suoi occhi erano lucidi, la luce dei lampioni scivolava sulle sue pupille e rifletteva.
«Non sei fidanzata Sophie?», domandò.
«No Fede, ma chi te l'ha detta sta cosa?» «Bo, mi sono sbagliato!».
Era strano in viso, quasi irritato, non capivo il perché e, a dirla tutta, non avevo capito nulla del suo comportamento, troppo enigmatico, sembrava avessi davanti una persona nuova di cui conoscevo solo il nome.
Arrivati finalmente al locale, scendemmo dall'auto, stavo per incamminarmi con Francesca, quando
Federico mi prese il braccio e mi tirò con forza. 
«Fede ma che hai stasera?», dissi, mi afferrai il braccio e lo lambii leggermente, mi aveva fatto male. «Francesca tu vai! Sophie mi deve aiutare a... ehm... prendere una cosa!», esclamò 
«Va bene Fede! Sbrigatevi però, è tardi!», rispose lei che, con il volto chinato sullo schermo del telefono, non si accorse di nulla; era nervosa per il regalo che doveva dare a Valerio di nascosto ed io la conoscevo bene, lo si vedeva dal modo in cui tremava con le gambe quando era seduta in macchina.
«Sei fidanzata con Davide?!», disse lui incattivito in volto, incorniciato dai capelli scompigliati che gli davano l'aria da pazzo.
Non riuscivo a comprendere da dove l'avesse dedotto, mandai via l'ansia e mi preparai per un interrogatorio veloce, faccia a faccia con il mio migliore amico che a tratti sembrava un estraneo.
«No! Non stiamo insieme! Chi ti ha detto sta' cazzata?»
«Nessuno! Era un dubbio mio...»
«E perché arrabbiarti così tanto? Fede io non sto capend...»
«Sophie mi piaci da impazzire!», mi interruppe, non avevo previsto una risposta del genere, e come potevo? Ero fermamente convinta che gli piacesse il suo stesso sesso, motivo per cui non avevo mai dato importanza al fatto che più volte mi aveva accompagnando in bagno, entrando con me.
Un senso di nausea cominciò ad invadere il mio esofago, il pensiero che mi aveva visto nuda mi logorava.
«Sì lo so che stai pensando che sono gay, ma... con te è diverso», continuò.
Lo guardavo con la bocca aperta, rispondendo con mezze frasi più corte del mio fiato, non sapevo che dire, non avevo idea se dovevo arrabbiarmi e spiegargli che era stato un bugiardo del cazzo fingendo così spudoratamente.
«Io ti amo! Ti amo troppo. Non potevo più convivere con questo segreto!», disse e subito dopo, come un fulmine, mi baciò leccando le mie labbra serrate.
«No Fede! Togliti!»
«Ma dai, ti prego! Io farei di tutto per te!».
Mi tirava le braccia per avvicinarmi a lui, pensava di essere all'interno di quelle scene romantiche in cui poi dovevamo vivere per sempre felici e contenti, solo che la sua convinzione era diventata fin troppo invadente. «Non mi toccare!», gli urlai, i miei occhi si riempirono di lacrime, oltre tutto avevo appena perso un amico.
Piccole gocce iniziarono a bagnarmi il viso, cercavo di trattenerle; lui era una delle persone più importanti per me, ma dovevo accettare che era appena morta, al suo posto vi era la volpe di Pinocchio, un'avida e viscida volpe.
«No, tu non capisci! Dobbiamo metterci insieme!», insisteva imperterrito stringendomi i polsi.
«Fede io non ricambio i tuoi stessi sentimenti, mi dispiace», dissi, lui continuava a darmi baci e io lo allontanavo pulendomi le labbra dopo ogni tocco forzato con la sua bocca.
La stretta ai miei polsi diventava sempre più forte, sembrava mi stesse fermando il sangue dal dolore, le mie mani si tinsero di bianco ed io gridandogli viso a viso lo mortificai:
«Basta! Togliti! Mi stai facendo male! Io non ti amo!».
Il suo cuore si distrusse con due semplici parole. Sentii la sua saliva scendere giù per la gola aspramente, inghiottendo anche il pianto.
Ed io lo lasciai lì, con il cuore spezzato e l'aspro sapore della delusione in gola.
Appena dopo l'ingresso nel locale c'era un bagno, vi entrai in fretta per sistemare il trucco e controllarmi i polsi, sentivo ancora le sue mani stringermi.
Passai un dito sotto l'occhio pulendo quella piccola macchia nera che si era formata, fortunatamente il resto del trucco era intatto, anche se non si poteva dire lo stesso del rossetto che era completamente sbavato.
Mi lavai velocemente le labbra cercando di togliere l'alone rosso che le attorniava, trattenendo il respiro e le lacrime. 
Mi guardai allo specchio e mi ripetetti:
«Tu sei forte Sophie, non dipendi da nessuno, neanche da quel testa di cazzo che ha provato a baciarti».
Con la mano tremolante misi solo il lucidalabbra, non volevo più vedere quel rossetto, mi avvicinai alla spazzatura per buttarlo, quando una ragazza mi fermò.
«Hey che fai?! Perché lo butti? È bellissimo!»
«Nah... non mi piace», risposi con voce rotta.
«Tutto bene?»
«Sì, perché?»
«Hai gli occhi un po' rossi, ma tranquilla non si nota molto!», esclamò.
Mi girai verso lo specchio e le diedi ragione, i miei occhi erano attorniati dalle venature rosse.
La ragazza svelta prese un fazzoletto e mi asciugò l'ultima lacrima, passando delicatamente la punta sull'origine del pianto.
«Ecco fatto! Perfetta. Qualche stronzetto ti ha fatto del male?», disse
«No, no. È tutto ok, comunque grazie!», risposi accennando un timido sorriso, si era preoccupata per me senza neanche conoscermi.
«So che significa, anch'io ho perso la testa per uno stronzo. Comunque, piacere Giulia!», disse porgendomi la mano.
Aveva i capelli corti e neri, le guardai il tatuaggio sulla spalla ed era familiare, il nome lo conoscevo. Capii si trattasse della tipa che aveva infilato la lingua in bocca a Davide.
Strinsi i denti, feci un sospiro ed allungai la mano per stringergliela.
«Piacere mio! Sophie», feci con un sorriso falso ben stampato in viso.
«Sophie, che bel nome! Hai un accento diverso però, di dove sei?»
«Milano».
«Piacere di averti conosciuto Sofia. Ciao!».
Si avvicinò salutandomi affettuosamente con un bacio in guancia, poi mi rigirai allo specchio e passai una mano sul viso per togliere la stampa del suo rossetto. Ero infastidita e mi si leggeva in faccia.
Uscita dal bagno non potei far altro che soffermarmi sull'arredamento del locale.
Quando andavo in posti nuovi o in generale vedevo qualcosa per la prima volta era come se mi trasformassi in una bambina che osservava curiosamente, restando a bocca aperta e fissando tutto ciò che mi circondava. Era un pub, con le luci a led e una mini pista da ballo attorniata da tavoli, i banconi per i cocktail immensi preceduti dagli scaffali con tutti i tipi di alcolici... così rustico, interamente fatto in legno; non avrei mai detto che quello era il posto preferito di Valerio, lo facevo più da discoteche enormi, mentre quello era l'opposto. Mi avviai al tavolo dove Valerio aveva preparato la bottiglia per brindare.
«4... 3... 2... 1... Auguri Valerio!», urlammo tutti in coro. Valerio cingeva la bottiglia: allo scattare della mezzanotte, la agitò stappandola, facendo piovere su di noi una pioggia di spumante, seguito da Federico e Leonardo che ricambiarono facendo a Vale una doccia del medesimo liquido frizzantino dall'odore aspro e forte.
Le loro risate, noi che ballavamo privi di ansia facendo defluire tutti i problemi che quotidianamente ci portavamo dentro.
Ginevra che ondeggiava a ritmo di musica con il ragazzo che le piaceva, Valerio che scartava di nascosto il regalo di Francesca, e lei che, tra un tiro e l'altro di Iqos, inarcava le guance pronunciando un tenero sorriso. Quella era la spensieratezza pensai bevendo un sorso da quel bicchierino colmo di prosecco gelido che al tatto delle mie labbra sembrava fosse diventata brina. La mia attenzione ricadde su Davide, che poggiava con i gomiti su una ringhiera di legno, con le mani giunte e lo sguardo perso.
Non capivo se era arrabbiato o triste, ma non riuscivo ad ignorarlo.
Anche se la mia testa mi diceva di allontanarmi, il mio cuore mi aveva già sussurrato all'orecchio di raggiungerlo. Testa o cuore?
La testa è razionale, coerente, sempre in guardia e priva di sentimenti, ma colma di ambizioni, mentre il cuore... beh... il cuore ti dà quell'adrenalina di buttarti ad occhi chiusi nella vita, anche con il rischio di farti male, ma con il sapore dell'amore in bocca.
L'amore smuove tutto.
Ero un'inguaribile romantica.
Mi avvicinai a lui con i piedi di piombo, la sua aria così seria mi aveva lasciato fuori dalla sua testa, motivo per cui iniziai a sentirmi invadente, quasi gli chiedevo il permesso per avvicinarmi.
«Hey!», dissi, lui mi fissò dritta negli occhi e borbottò:
«Con chi ti sei baciata?!», arrivando dritto al punto.
«Con nessuno!», esclamai sbigottita.
«Sophie dimmi la verità! Con chi cazzo ti sei baciata?». Si stringeva spesso le guance storcendo la pelle, le vene del collo gli si gonfiarono, il viso sfumava in varie tonalità di rosso.
«Te l'ho detta la verità! Con nessuno e poi anche se fosse qual è il problema?»
«Qual è il problema?! Pensavo ci fosse qualcosa tra noi...».
«Cosa c'è? C'è solo amicizia!»
«Mandi segnali contraddittori, te ne sei resa conto principessa? Senti se stai cercando il tuo prossimo amico gay levato dalla testa. Io non ho tempo da perdere!».
Era furibondo e con gli occhi lucidi; stava esagerando, le sue emozioni erano decisamente alterate dall'effetto dell'alcol, avevo già sentito l'odore di gin mentre mi stavo avvicinando.
«Davide sei ubriaco? Perché se lo sei questo discorso lo riprendiamo un'altra volta o rischiamo di dire cose che non pensiamo mandandoci a vicenda a quel paese. Non voglio perderti Davide». Poggiai la mia mano sulla sua, cercavo di calmare quel suo lato contorto.
«Non sono ubriaco!»
«Non ti reggi in piedi!»
«È inutile che cambi discorso!», farfugliò, i suoi occhi guardavano altrove, lui non era lì con me. Mi guardavo continuamente le spalle, stavamo dando troppo nell'occhio.
«Perché eri gelosa di Giulia se non ti interesso», disse mangiando le parole, parlava a rallentatore e un po' mi faceva ridere.
«Tutto a posto amici?», chiese Valerio appoggiandoci le braccia attorno al collo.
«Sì Vale!», risposi, Davide rimase in silenzio.
«Tieni, bevi fraté», disse Valerio.
Con il braccio che poggiava su di me prese un bicchierino e lo passò a Davide.
Gli lanciai un'occhiataccia e lui sbuffò a ridere.
«Che c'è Sophie? Non capisco il perché di questo sguardo fulminante».
«Ma non vedi che a stento si regge in piedi!? E tu gli dai ancora da bere».
Valerio si soffermò per guardare il viso di Davide.
Il colorito della pelle biancastro veniva accentuato ancor di più dal suo sguardo cupo, da quelle occhiaie così scure, violacee. Gli guardavo con calma la sua pelle irruvidita dall'espressione disgustata, le pupille falciate dalle palpebre semiaperte e la schiena curvata in avanti, con i gomiti poggiati su quella ringhiera traballante.
«Oh oh!», esclamò.
«Cosa?»
«Devi sapere che quando Davide non parla sono due i motivi: o sta per uccidere qualcuno o sta per vomitare, io direi che è la seconda»
«Che aspetti?! Portiamolo fuori, magari prende un po' d'aria e si riprende».
Davide rimase impassibile in viso con lo sguardo vuoto, chissà cosa stava pensando.
Valerio gli attorniò il braccio in vita facendo poggiare quello di Davide attorno al suo collo e mi ordinò: «Prendi il suo telefono sennò lo perde e compra anche una bottiglietta d'acqua».
Mentre loro si avviavano fuori io presi tutto ciò che mi aveva chiesto Valerio, poi diedi un'occhiata in giro, fortunatamente tutti erano abbastanza sbronzi da non accorgersene.
Uscita dal locale mi avvicinai nel parchetto vicino.
«Fratello ma quanto hai bevuto?», disse Valerio. Davide continuava a stare in silenzio, seduto su quella panchina di pietra con le mani che sorreggevano la testa, i gomiti poggiati sulle ginocchia, le gambe aperte e i piedi ben saldi al suolo, poi tra un singhiozzo e l'altro disse:
«Solo un cocktail, forse qualche shot... e qualcos'altro». «E menomale che "avevi bevuto solo un po'"», sottolineai.
«Rilassati Sophie! Ha esagerato, capita, scommetto che anche a te è successo almeno una volta». Valerio mi guardava con le sopracciglia stirate, la sua voce era rilassante, riusciva a tranquillizzarmi. 
Valerio si chinò davanti Davide e gli passò l'acqua.
«Sei un campione!», esultò Valerio divertito mentre guardava Davide buttare fuori anche l'anima. Capivo perché erano amici, l'uno alleggeriva i pesi dell'altro evitando che il mondo cadesse addosso a uno dei due.
Sorrisi, amavo la loro amicizia.
Amicizia, un termine volgarizzato e appesantito da troppi usi sbagliati; diventato un termine superficiale e sconosciuto, senza sapere poi che l'amico vero è quello che quando hai successo si emoziona al posto tuo, quello che alle 04:00 di notte, se hai bisogno di un abbraccio, si prende la briga di cambiare sette mezzi pubblici e arrivare fino a casa tua.
Oramai non eravamo abituati a quel concetto, la nostra generazione pullulava d'odio e invidia, fin troppe poche persone abusavano della parola amicizia, senza sapere che quando tornavano a casa, chiudevano le pagine social dove avevano quattromila amici, e il mondo gli cadeva addosso, quei quattromila amici erano soltanto un numero.
Valerio prese la bottiglietta e versò l'acqua sui polsi di Davide.
«Come vi siete conosciuti?», gli domandai.
Alzò lo sguardo verso me e sorrise, aiutò Davide a mettersi seduto e mi rispose:
«Diciamo che è nata per caso. Lo vidi in prima media, aveva il gesso al braccio perché era caduto dalla bicicletta, ricordo fu Leonardo a raccontarmelo.
Un po' me ne vergogno perché non è da me, ma lo prendevo in giro, gli dicevo delle cose davvero brutte...»
«E lui non rispondeva?», domandai incuriosita.
«Sì, ci siamo litigati tante volte, persino i professori si sono dovuti mettere in mezzo. Gli altri mi dicevano di lasciarlo stare... più che altro per suo padre». Davide si era addormentato sulla panchina, aveva gli occhi serrati e la bocca aperta, sbuffammo a ridere.
«Ad ogni modo... Ci ritrovammo in classe insieme, io bocciai al secondo anno di medie, i miei genitori avevano iniziato a non andare d'accordo ed io non avevo proprio voglia di studiare. Davide è una sorta di genio a scuola, riesce a studiarsi tipo venti pagine in un'ora. Gli chiesero di aiutarmi, io non avevo intenzione di continuare ad andare a scuola, me ne stavo seduto da solo, all'ultimo banco, con le cuffie nelle orecchie. Ma lui accettò e tutte le mattine, quando entravo in classe, trovavo lui seduto nel banco accanto al mio. Gli raccontai della separazione dei miei genitori, ma lui rimaneva sempre vago quando parlava di suo padre».
«Non ne parla mai, vero?», chiesi.
«Mai», e aggiunse: «Da lì è iniziato tutto, dalle prime sigarette nel bagno alle sbronze il sabato sera».
Sentimmo farfugliare e ci voltammo verso Davide. Valerio si avvicinò con l'orecchio, poi Davide alzò la voce:
«Le sigarette che rubavi a tua madre».
Valerio iniziò a ridere e confermò.
«Sto una merda», borbottò Davide. Alzò la testa dalla spalliera e la poggiò tra le mani, sputando, di tanto in tanto, l'amara saliva.
«Ti fa riprendere Sophie? Eh eh», sogghignò Valerio con uno sguardo pervertito riflesso all'estremità della bocca.
«Vale! Sei scemo! Siamo amici, A-M-I-C-I!», scandii. 
«Non ci credi neanche tu», ridacchiò.
Udimmo un tacchettio sempre più forte, poi un sospiro ed un tono di voce femminile:
«Che succede?!», un brivido corse dietro la mia nuca non appena capii che si trattava di Francesca.
«Davide! Ma che ha?!», continuò con il tremolio delle corde vocali.
Davide si era stirato lungo la panchina, giaceva con la testa poggiata tra le sbarre in ferro arrugginite; io e Valerio ci eravamo distratti e non ci eravamo accorti che si fosse addormentato.
«Tranquilla! È solo ubriaco», disse Valerio peggiorando la situazione.
Francesca posò il suo sguardo terrorizzato su di me, cercando magari quel po' di conforto che avrebbe potuto calmarla, poi domandò:
«Perché non mi avete chiamata?»
«Non volevo che ti preoccupassi! Sta bene». Guardai la situazione generale e non era una bella scena da vedere: lui dormiente completamente assente, la bile che era riuscito a buttare davanti a lui e la strana paura che si inoltrava dentro il mio corpo.
«Valerio non è che è in coma?!»
«No, macché!».
«Davide! Svegliati che ti porto a casa!», esclamò Francesca.
«No! Tua madre si infurierà!», rispose Valerio.
«Non può dormire qui», dissi.
Valerio si espose: «Andiamo a casa mia! Non c'è nessuno».
Francesca ci pensò su e alla fine accettò.
Una volta in auto, io salii sul sedile accanto a quello di Valerio, mentre Francesca dietro con Davide poggiato su di lei. Gli sorreggeva la testa evitando gli urti, lo confortava passandogli la mano in fronte e soffiando un po' d'aria fresca sul viso sudato; anche in quelle condizioni era bello da morire.
Arrivati a casa per far salire le scale a Davide fu un'impresa, Valerio lo sorreggeva da dietro evitando che cadesse, Francesca da davanti gli teneva le braccia. Ci portò nella stanza degli ospiti per farlo stendere un po'.
«Hai una bella casa», esclamai e mi soffermai per guardarmi intorno.
«Sophie, devo parlare un attimo con Valerio, puoi rimanere tu con Davide?», mi sussurrò Francesca.
«Sì certo!»
«Grazie! Noi siamo giù in salotto».
Ironia della sorte era stata lei a lasciarmi sola con lui. Mi sedetti al suo fianco e concentrai il mio sguardo sul suo volto, era un angelo.
Il suo viso pallido, porcellana, era rivolto al soffitto, con quei suoi capelli castani un po' scompigliati, il suo respiro affannato e gli occhi chiusi.
Per me era la perfezione, anche se quel suo lato del carattere mi aveva dato un assaggio dei suoi difetti, i miei occhi non riuscivano a guardarlo senza amore.
Mi avvicinai sempre di più e iniziai ad infilare la mano nel suo ciuffo ribelle, accarezzandogli così tutta la testa.
La mia attenzione non poteva ricadere in un altro posto se non nel suo avambraccio tatuato con quella scritta che notai al nostro primo incontro; non riuscivo a leggere, eravamo al buio con alcuni fili di luna che entravano a malapena dalla finestra e che bastavano per guardarci in faccia.
Sentivo un brivido che correva lungo la schiena e la pancia che formicolava, le farfalle dentro il mio stomaco credo che avessero allestito uno spettacolo di danza.

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