Davide
Aprii gli occhi ed era tutto buio con qualche spiraglio di luce che mi illuminava le pupille.
Mi guardai intorno cercando di capire come fossi finito lì, ma il mio ricordo più recente era quello di me, seduto al tavolo del bar, con la bottiglia di vodka quasi vuota e il suo amaro gusto in bocca che sentivo ancora disteso sul letto.
Non ero mai stato in quella stanza.
Era piccola, con le mura bianche e prive di quadri, per vedere altro avrei dovuto alzare la testa, ma la sentivo così maledettamente pesante, per non parlare delle fiamme lungo la gola.
Al mio fianco c'era lei, con gli occhi calati ed intenti a fissare qualcosa.
Il suo visino innocente con il nasino all'insù e gli zigomi rilassati, con quelle labbra sporgenti a forma di cuore che chiedevano d'esser baciate, anche se in realtà io le avrei volute mordere.
Incarnava il mio ideale di perfezione.
L'ombra della sua chioma riccia occupava gran parte della parete, poca luce le illuminava il volto, ma bastava per vedere la sua espressione perplessa.
«Hey», ansimai con il cuore in gola, avevo combinato proprio un bel casino.
«Hey».
Abbracciò il mio sguardo per pochi secondi con i suoi occhietti da cerbiatta.
«Cosa stai guardando?».
Spostai il braccio sinistro dietro la mia testa per sorreggerla, lasciando il braccio opposto tra le sue manine.
«Il tuo tatuaggio», sussurrò passando le sue dita soffici sull'inchiostro in rilievo.
«Ti piace?»
«Sì».
Timidamente pronunciò quella risposta, avevo capito che aveva voglia di saperne di più, ma non comprendevo il suo imbarazzo.
«La scritta in sé non è molto importante».
«E perché l'hai fatta?»
«Vedi questi! Sì, quei piccoli puntini neri tra le lettere. Guarda bene», spiegai muovendo il braccio verso la luce e lei assentì con la testa.
«Sono macchie d'inchiostro», continuai.
«Come te le sei fatte? Ha sbagliato il tatuatore?».
Strizzò gli occhi analizzando per bene la pelle, solcata dalle vene del mio avambraccio, decorata da quelle minuscole macchioline nere.
«Mio padre... mi ha bucato le braccia con l'inchiostro di una penna bic e l'ago di una siringa».
Misi a nudo la mia parte più fragile, quella parte che non riuscivo neanche a guardare allo specchio perché la odiavo così tanto da rischiare di prenderla a pugni, finendo con i frammenti del mio riflesso sparsi in mille pezzi e le mani piene di sangue.
In quel preciso momento avrebbe potuto schiacciare il mio cuore con la facilità di battere le ciglia, eppure mi sorprese la sua attenzione nel non romperlo.
«Che cosa orribile».
Con il fiato sospeso mi guardò, la fissai con gli occhi di quel bambino che quella notte aveva subito le torture strazianti di un gioco perverso che gli aveva fatto piangere persino il colore delle iridi.
«Mi ha torturato, mi ha odiato e... mi ha spezzato il cuore», risposi rilassando il torace emettendo un lungo sospiro.
Gli occhi lucidi non mi appartenevano più, preferivo mandare tutto all'aria ed incazzarmi, che finire con la testa tra le mani e le lacrime a bagnarmi le ginocchia. «Scusa! Scusa per tutto! Stasera sono stato un vero coglione», aggiunsi.
«Non ti preoccupare».
Spostò nuovamente i suoi occhi sul mio viso, che dall'inizio della discussione aveva preferito tenere bassi.
«Sono un vero casino, riesco sempre a rovinare tutto».
Strizzai gli occhi e sentii la sua risatina amorevole. «Tu non sei un casino! Ma, invece, adesso come stai?» «Bene... credo, ma dove siamo?».
Lanciai un'occhiata in giro per la stanza, con la testa leggermente rialzata notai il comodino in legno bianco decorato con delle rose ed una porta da cui si scorgeva il lavandino del bagno.
«A casa di Valerio, questa è la stanza degli ospiti».
«La stanza che tiene sempre chiusa. Ora ho capito». Non pensavo fosse casa di Valerio, pensandoci era troppo ordinata per appartenergli; sua madre era una disordinata di prima categoria, una volta trovai macchie di salsa sparse per il divano ed un cartone delle pizze lasciato lì da settimane.
«Dovrei andare a casa, se mia madre scoprisse che sono qui...», mormorò.
«Ricordo tua madre e ricordo non voleva giocassi con me. Perché?»
«Mia madre è sempre stata così, un po' con tutti in realtà. Ha la maniacale ossessione di dovermi controllare la vita».
«Tu non sembri la tipa che accetta ordini senza obiettare», dissi sorridendo appena.
Elisabeth, la madre di Sophie, la rammentavo con quello sguardo indelebile che sembrava maledicesse il resto del mondo. Quelle pupille nere come la pece che facevano correre lungo la mia schiena una sensazione di timore nauseante, costringendomi a stare attento ad ogni mio gesto.
«Devo ammettere di essere un po' testarda», affermò nascondendo il sorriso dietro la mano.
Misi entrambe le mani sopra la faccia, strofinando gli occhi.
«Ti va di parlare di ciò che mi hai detto prima?», asserì stirandosi al mio fianco.
Sentivo il fuoco della vergogna divampare sulle tempie mentre le paranoie divoravano con calma le mie interiora.
Poi aggiunse: «Togli le mani davanti agli occhi e guardami!».
Accettai la sua richiesta che, detta con la voce così ferma, non si poteva rifiutare.
Scoprii il viso e girai il capo verso di lei, improvvisamente le mie emozioni esplosero.
«Hai ragione quando dici che mando segnali contraddittori... La verità è che non so neanch'io che mi prende, so solo che mi piace stare con te».
Le spostai i capelli che fastidiosamente le andavano davanti il viso e le sussurrai:
«Ho esagerato, ti chiedo scusa. La verità è che neanch'io so che mi sta succedendo. Ho paura di affogare nei tuoi occhi».
«Non puoi affogare se nuoti».
«Per ora è facile rimanere a galla, il mare che si intravede è calmo, rispecchia ciò che mi trasmetti in questo momento», bisbigliai.
Sentivo il suo buon profumo che rilassava la mia anima, tracciavo la sagoma del suo volto dalla pelle liscia con i miei occhi, non era difficile dato che sembrava fosse stata disegnata da Walt Disney.
Si limitò ad accogliere la mia tranquillità respirando così piano che pareva non stesse prendendo neanche fiato.
«Nei tuoi occhi c'è quel qualcosa che non avevo mai visto... qualcosa che cerco da tempo. Li guarderei per ore senza mai stancarmi», continuai accarezzandogli la guancia color vino.
Ci fu un attimo di silenzio assoluto in cui sentii i battiti sincronizzati dei nostri cuori, mentre lei mordeva il labbro inferiore, mi rivolse il suo più bello sguardo con gli occhioni che mi incatenavano.
Sentii una forte attrazione, eravamo così vicini che sentivo il suo respiro sul mio viso.
Avrei voluto baciarla con tutto me stesso, ma avevo paura di essere rifiutato.
D'un tratto si avvicinò lei muovendo a singhiozzi la sua testa verso di me; io leccai le mie labbra secche e la seguii.
Ci ritrovammo naso contro naso, con la sua fronte che premeva contro la mia, fu l'unico momento in cui sentii la mia anima così vicina alla sua e per la prima volta in tutta la mia vita non mi sentii solo, con la guardia alta, contro il mondo.
«Sophie», sussurrai.
Mi strinse la mano tirandola verso di sé.
Con i gesti mi parlava e mi piaceva saperli comprendere; i nostri sguardi giocavano, mentre le nostre mani si toccavano, eravamo complici, la chimica tra noi non passava inosservata.
Le sfiorai gli zigomi con le labbra.
Proprio quando la mia bocca avrebbe dovuto toccare la sua, Sophie, schivò il mio bacio costringendomi a fermarmi, anche se era troppo tardi.
La baciai lì, tra l'angolo della bocca e la guancia.
Fissò la porta con dei respiri affannati, iniziarono a sudargli le mani che nervosamente scuoteva.
All'improvviso un silenzio imbarazzante si espanse in camera riuscendo a farmi udire i battiti accelerati del suo cuore.
«Hey, tutto bene?!», bisbigliai.
Le misi una mano sulla spalla per tranquillizzarla, ma il mio cervello era appena andato a farsi fottere insieme alle paranoie sul perché l'avesse fatto.
Mi sentii a disagio, credevo fosse colpa mia.
«Credo che stiano salendo!», esclamò.
Rivolse ancora una volta lo sguardo verso di me ed io mi pietrificai.
La mia espressione era uguale a quella di un cervo che attraversava la strada in piena notte e si bloccava per via di due grossi fari abbaglianti di un'auto in corsa.
«Sophie! Come sta Davide?», gridò Francesca. Sentii anch'io i passi pesanti che salivano le scale ed il tintinnio dei braccialetti di mia sorella che toccavano la ringhiera.
Fu un po' un sollievo, quel bacio mancato non era stata colpa mia.
«Bene!», gridò a sua volta Sophie.
Si alzò di scatto, sistemando il vestito tirandolo un po' più giù, togliendo le pieghe, ed io immobile sul letto con un vuoto nel petto.
Le avrei voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, per rompere il ghiaccio, credevo che anche lei avesse le stesse intenzioni, ma si limitò a guardarmi con il cuore in gola.
Mentre i nostri occhi si fissavano, il silenzio che regnava in camera fu squarciato dall'improvviso rumore della porta che si aprì di scatto, era Francesca.
Non potevo notare altro se non le labbra prive di rossetto, poi guardai Valerio e notai avesse un impercettibile alone rosso appena sopra il labbro superiore.
In quel momento non mi importò più di tanto e sicuramente non volevo sapere in quale modo avesse infilato la lingua in bocca a mia sorella ripulendole il rossetto.
«Valerio, forse dovresti toglierti il rossetto di mia sorella dalle labbra», esclamai.
Mi guardò sbalordito e iniziò a balbettare:
«Da-Da-Davide posso spiegare».
Non dissi più niente, la tensione si respirava nell'aria pesante che si era creata, continuavamo a guardarci aspettando che qualcuno prendesse parola, io non avevo intenzione di aggiungere altro, Valerio era appena stato divorato dalla vergogna, Francesca se ne stava in silenzio a guardare altrove, e Sophie continuava a stare ferma, davanti a me, con l'imbarazzo che le si leggeva sulle guanciotte.
«Forse è meglio se torniamo a casa, è tardi», suggerì Francesca.
Io assentii con la testa, non la guardai neanche in faccia, poi mi alzai e con il capo basso passai in mezzo alla coppietta per uscire dalla porta.
L'indomani continuavano ad arrivarmi messaggi da parte di Valerio ed io non risposi a nessuno.
Erano le 10:00 del mattino, ero in after, con un buco allo stomaco per la fame ed il viso ancora inzuppato dall'aria notturna; e stavo lì con il corpo disteso sul letto e la faccia rivolta verso lo specchio al lato della porta. La mia stanzetta non era molto grande, il letto sotto la finestra, la scrivania in legno con i cassetti rotti e decorata con delle scritte intagliate con la forbice; quella scrivania aveva visto di tutto, dall'inchiostro delle penne con cui mi dilettavo a disegnare alle chiappe delle tipe che mi portavo a letto non appena compiuti i 12 anni.
Sopra la scrivania c'erano due mensole impolverate con gli album da disegno. Mi era sempre piaciuto disegnare, mi portava in qualche modo lontano dalla realtà, mettevo le cuffie, acciuffavo una matita dal mio portapenne e passavo ore intere in quel mio mondo colorato fatto di tutto ciò che speravo per la mia vita futura, anche se ero sempre stato un realista che sognava ad occhi aperti con i piedi ben saldati per terra.
Sognavo di avere la forza di allontanare quel mostro di mio padre o di prendere il primo aereo e portare via la mia famiglia.
Mio padre, colui che sarebbe dovuto essere il mio esempio, che avrebbe dovuto difendere mamma da qualsiasi dolore... era invece l'artefice di tutto.
Sul lato opposto alla scrivania c'era l'enorme armadio in legno con le ante verdi.
Nella mia stanza c'era sempre stato un gran disordine, con pantaloni e felpe sparsi qua e là, il tabacco che rimaneva appiccicato sulla scrivania insieme all'erba che sprigionava il suo odore nell'aria come una candela profumata.
Si diceva che il disordine che c'era in una camera rispecchiava quello che si aveva in testa e forse era anche vero, ma sicuramente io non avevo mai avuto né tempo né voglia di mettere a posto la mia vita.
Dopo una mattinata ad oziare decisi di andarmi a vestire per uscire un po', nel frattempo aspettavo un messaggio da Sophie perché, dopo essermene andato, non l'avevo più sentita.
Forse avrei dovuto chiamarla, ma ero troppo preso dalle emozioni incontrollate, dall'imbarazzo di quel quasi bacio all'ira nei confronti di quei due.
Andai in bagno per lavarmi i denti, la mia bocca puzzava ancora di vodka e vomito.
Mi guardai allo specchio, notai il mio viso pieno di rughe con le sopracciglia aggrottate e il broncio che involontariamente la mia bocca aveva assunto, ero arrabbiato e mi si leggeva in viso, avrei voluto spaccare lo specchio per togliere il riflesso davanti ai miei occhi. Scendendo le scale vidi mia madre seduta sul divano con le gambe incrociate, intenta a guardare il telefono, con quei suoi occhiali da lettura trasparenti che le scivolavano malgrado il naso aquilino e che ogni tanto, con un gesto lesto delle dita, venivano spinti più su. «Hai fatto di nuovo tardi ieri sera?», domandò sfilando le lenti dal naso e lasciandole penzolare dalla catenella che avevano attaccata un po' più su del seno.
Spense il telefono e mi fissò con quei suoi grandi occhi verdi con attorno qualche ruga.
«Mamma non ho voglia di discutere, lasciami in pace ti prego!».
Il suo tono era calmo, ma la sua domanda lasciava intendere l'inizio di una lite.
«Non voglio discutere, voglio solo sapere se ti sei rimesso con la ragazzina... come si chiama? Ah Denise! Sei stato con lei?».
La guardai senza fiato, non mi aspettavo quella domanda.
«N-no».
Mi fece segno di sedermi accanto a lei, battendo la mano sul divano e sorridendomi amorevolmente, ma io non accettai.
«Dai siediti che parliamo, sei innamorato?».
Continuava a ridere divertita, come se stesse parlando con un bambino che aveva appena detto la sua prima parola.
«Smettila! Non sono innamorato di nessuno e Denise non mi è mai piaciuta».
«Allora c'è un'altra ragazzetta che ti sta dando del filo da torcere?! Sei cotto!».
Le guance mi bruciarono dall'imbarazzo e non potei fare niente per rimediare, questo bastò per rispondere alle sue domande.
«Ti conosco come il palmo della mia mano figlio mio, non mi puoi nascondere niente e poi ti si legge negli occhi che hai avuto il colpo di fulmine... e anche da come ti distrai facilmente».
Continuava a ridere, Dio era fastidiosa.
«Ehm... sto uscendo!».
Non fece neanche caso alla porta che lasciai sbattere dietro di me, era troppo impegnata a ridere, sennò mi avrebbe urlato: "Non sbattere la porta che già è rotta! La vuoi rompere ancora di più?!" con la voce stridula di quando si arrabbiava.
Arrivato in piazzetta era come se con Leonardo non ci fossimo mai litigati, lui mi salutò amichevolmente, con tanto di pacca sulla spalla ed offrendomi persino qualche tiro.
Valerio era lì ed io gli lanciai mezza occhiataccia accompagnata dall'amarezza del mio ghigno.
Non mi importava che fosse il giorno del suo compleanno, ero troppo arrabbiato per mettere da parte l'orgoglio.
Sedeva alla fine della panchina, in equilibrio sul bordo, si fece così piccolo da non far uscire neanche un dito dal suo spazio che ben stretto delineava con la punta delle sue nuove Nike bianche con le catenelle in oro ai lati.
Nonostante il mio comportamento forse un po' infantile, nel guardarlo e deriderlo con dei soli gesti facciali, non reagì, se ne stava lì, buono buono con la sigaretta in bocca e gli occhi nascosti dall'ombra che il berretto gli faceva.
«Hey ragazzi avete un accendino?», domandò una bionda che si avvicinò a noi con quella sua aria d'americana ed il sorriso perfettamente bianco, quasi lucido.
«Certo, tieni!», risposi.
Le passai la clipper che avevo rubato dalla macchina di Valerio, porgendola alla bella ragazza proprio davanti ai suoi occhi, ma ancora una volta nessuna reazione. Posizionò la sua Camel tra le labbra e con il pollice della mano opposta girò rapidamente la rotella dentata verso il basso, ma invano, l'accendino proprio in quel momento aveva terminato il gas al suo interno. «Oh non funziona. Non è che ne avresti un altro?». Battei due colpi fuori le tasche dei pantaloncini, poi infilai entrambe le mani, ma oltre al portafogli ed il telefono, non trovai ciò che cercava.
Così sfilai la sigaretta dalle labbra e avvicinandomi gliela consegnai. «Accendi da qui!»
«Grazie!».
Le sigarette si baciarono, poi gonfiò le guance aspirando piccoli tiri per far sì che la fiamma la contagiasse.
Mi fece un tenero sorriso nascondendo gli occhi ridenti sotto i vetri azzurri dei suoi Ray Ban.
Quando avvicinò la sua mano a me sentii il forte profumo di rose che il suo polso emanava e, mentre afferrai nuovamente la mia sigaretta, le guardai la mano dalla pelle rosata che finiva con delle unghie rosse. Sembrava fosse straniera, non era una di quelle ragazze che ti lasciava senza fiato quando la incrociavi per strada, ma si faceva notare.
«Ci conosciamo?», domandò analizzandomi da capo a piedi, con un braccio sotto il seno e l'altro disteso con la sigaretta puntata verso il basso per far cadere la cenere. «Non credo, io non ti ho mai vista», risposi scrutandola per cercare di far affiorare qualche ricordo, ma non mi diceva nulla il suo volto dal mento quadrato.
«Ma certo! Ti ho visto in discoteca!»
«Non mi ricordo di te, mi spiace».
«Ma sì dai! Pensaci bene».
Ricordai una ragazza bionda che in discoteca mi fissava, seduta sui divanetti, con altre due ragazze di fianco.
«Sei l'amica di Giulia!» esclamai.
«Sì, esattamente!».
Si girò di tre quarti con il busto, spostando i suoi capelli dorati che poggiavano sulla spalla, ed indicò delle ragazze sedute nelle panchine dall'altro lato della piazzetta, poi aggiunse:
«Ecco! Là c'è Giulia e le altre mie amiche».
D'un tratto capii che il nostro incontro non era stato casuale, bensì un piano architettato dall'amica dal caschetto nero intenso per saperne di più su di me, dato che quella sera, dopo esserci baciati, la lasciai strofinarsi con il muro senza neanche dirle il mio nome. La guardai con occhi vispi aspettando di sentire cos'altro avesse in mente di dirmi.
«A proposito, che sbadata non mi sono presentata,
piacere Jasmine! Tu sei?»
«Davide, piacere mio».
Strinse la mia mano ed inarcò un sorriso di vittoria, il suo maldestro tentativo di scoprire più cose possibili su di me, secondo lei, stava andando più che bene.
«E sei fidanzato Davide?»
«Chi lo vuole sapere, Jasmine o Giulia?».
Arrossì in volto, rimase qualche istante con la bocca aperta, poi sussurrò:
«Entrambe!».
Non si fermò lì, con un altro sorrisetto malizioso aggiunse:
«Non credi sia poco carino baciare una ragazza e scomparire?»
«Non credi sia inopportuno baciare gli sconosciuti?».
La sfidai con gli occhi, sbuffai un tiro ed espirandole il fumo in faccia continuai:
«Non sono interessato».
Le sue pupille marroni mi aggredirono e senza dire nulla assentì con il capo, mi ringraziò per la seconda volta per averle fatto accendere la sigaretta e tornò dalle sue amiche.
Mentre mi riavvicinavo ai miei amici mi accorsi che Sophie era dall'altro lato della piazzetta.
Mi sembrava piuttosto spensierata, cantava con quella sua vocina bianca le canzoni che passavano alla JBL, muovendo qualche passettino di danza ondeggiando con l'addome.
Si toccava spesso i capelli raccogliendoli in una coda e lasciandoli ricadere sulle spalle. Mi incantava vederla ballare.
Percorsi la strada che portava da lei. Mentre camminavo pensai a qualche scusa da dire una volta arrivato lì.
C'erano Federico e Edoardo che, come al solito, tenevano compagnia alle ragazze.
Denise mi rivolse uno sguardo, distogliendolo subito dopo per paura di farmene accorgere, ma era troppo tardi, io l'avevo notata.
Sophie, al contrario, non si girò neanche per salutarmi, rimase presa dalla musica e dai suoi pensieri; era palese che mi stesse evitando di proposito, si comportava come se non ci fossimo mai visti prima d'ora.
Salutai e mi recai vicino a Francesca. Sedeva sulla panchina con le gambe incrociate e con le braccia a sorreggerle il viso annoiato.
«Francesca dammi le chiavi di casa, le ho dimenticate», borbottai.
Allungai il braccio verso di lei e rivolsi i miei occhi a Sophie.
«Per quanto tempo dovrai ancora evitarmi? Non mi parli, non mi saluti, non mi passi le cose a tavola quando te le chiedo...», mi schernì.
«Dammi le chiavi e basta, non mi va di parlarne».
In realtà ero troppo impegnato a guardare i movimenti sciolti della schiena di Sophie per star a sentire mia sorella che si lamentava.
D'un tratto girò il capo rivolgendomi il suo profilo e notai che mi fissò per qualche istante con la coda dell'occhio per poi tornare ad ignorare la mia presenza. «Hey Sophie! Ma quindi domani sera ci sei anche tu, vero?», domandò Edoardo.
La guardava come un pervertito, abbracciandole con gli occhi il seno che si intravedeva da quella sua magliettina scollata.
«Sì certo!», rispose sedendosi al suo fianco, proprio in quel momento decise di attenzionarmi.
Stavo impazzendo, guardava me e poi lui, ci rivolgeva lo stesso sguardo, lui la spogliava e lei se ne stava lì a ridere e ad accarezzargli i capelli.
Francesca continuava a parlarmi, non riuscivo ad ascoltarla, pensare che quei due si sarebbero dovuti vedere di sera; mi sentii morire.
Non ero nessuno per lei, non contavo niente, ero un semplice amico con cui c'era stata dell'attrazione; stava succedendo tutto in fretta che ancora non avevo ben capito com'ero finito a non dormire neanche la notte per pensarla.
Edoardo mi sfidava, mi guardava e mi rideva in faccia. In silenzio afferrai le chiavi, chiusi il pugno e tornai a casa.
Il cuore mi bruciava, mi strozzava.
Dopo essere entrato dal cancello sporco di ruggine di casa mia, sul sentiero in pietre che portava alla porta, sentii una voce femminile familiare e sempre più incuriosito velocizzai il passo per capire chi fosse.
Infilai la chiave nella serratura, ma non servì neanche girarla che la porta era rimasta semiaperta, bastava spingerla con un dito per aprirla del tutto.
Sentii la discussione di quelle due voci di donne sempre più forte, afferrai la maniglia e spingendo la porta rimasi paralizzato.
Non mi aspettavo di trovarli lì.
Sul divano in pelle beige c'era seduta, con le gambe a cavalcioni e il viso tremendamente serio, la madre adottiva di Kevin. Aggrappava con le sue unghie affilate il braccio del divano, sembrava stesse soffocando qualcuno per la presa così stretta.
Sulla poltrona vicino le scale, a destra, c'era Kevin con il gesso nel naso e gli occhi lividi e gonfi, seduto in un angolino, impaurito dalla situazione.
Al centro del divano vi era mia madre furibonda. «Ti stavamo aspettando!», esclamò Caroline con il suo accento russo.
La sua espressione non era proprio uguale a quando mi conobbe, all'epoca ero un dolce ragazzino che usciva in bici con suo figlio. In quel momento mi guardò come se volesse piantarmi un paletto nel cuore o come se mi volesse far inseguire da una folla inferocita con torce e forconi.
«Ti sembra normale il modo in cui hai conciato mio figlio?! Ti devi solo vergognare!», continuò.
Rivolsi di nuovo il mio sguardo su Kevin e lo maledii.
Continuai a guardarli più sconvolto che mai.
«Non è colpa mia se suo figlio non ha nessun rispetto verso le ragazze», ribattei. «Come ti permetti? Io ti denuncio».
Si alzò dal divano sbraitando, mia madre mi guardò ed io capii che non avremmo potuto sostenere il denaro per una causa che avremmo sicuramente perso, la sua espressione delusa era amaramente veritiera.
«No aspetti!», intervenne mamma, placando così l'ira della donna dai capelli color oro, poi continuò: «Sono sicura che si può risolvere in altri modi».
Caroline analizzò la richiesta alquanto comoda per i suoi piani, rilassandosi di nuovo sulla seduta in pelle, poi guardò il figlio e notò che ancora dal naso, nonostante fosse passato tempo, continuava a grondare sangue, macchiando il sostegno che i medici avevano messo.
«Cosa mi proponi Sarah? Tu cosa faresti se a quel mostro gli spaccassero la faccia, eh? Che ogni giorno devi aiutarlo a mangiare, perché sì, gli ha causato danni anche alla mandibola. Cosa faresti? Chissà, forse perché io ho l'istinto materno».
Quel suo accento straniero mischiato ai verbi coniugati male in italiano torturava le mie orecchie.
«Istinto materno, come no», pensai, mancava per mesi, lasciava Kevin da solo, abbandonato, si faceva viva una volta all'anno, di suo figlio non sapeva un cazzo, non sapeva che spacciava, che si faceva di: cocaina, anfetamina, ecstasy e Dio solo sapeva cos'altro e poi voleva fare la morale a mia madre che si spaccava la schiena per portare quattro spiccioli a casa che a malapena bastavano per pagare la luce.
Mi auto-costrinsi a sigillarmi la bocca o avrei rischiato di finire in guai seri.
«Sono sicura che hanno sbagliato entrambi e poi sono liti tra ragazzi, domani avranno fatto già pace», la tranquillizzò mia madre accendendosi una sigaretta dal pacchetto sul tavolino di fronte a lei.
«Caroline lasciamo stare dai! Ha ragione la signora, sono solo stupide liti di due ragazzetti».
«Ma che dici Kevin?! Ma ti sei guardato allo specchio?!»
«Basta! Torniamo a casa! Io e Davide ne discuteremo in privato».
Mi sorprese il suo essere così tranquillo, capii da quella frase che l'idea di venirmi a denunciare era stata solo ed esclusivamente di Caroline, e sapevo anche che Kevin con la polizia non voleva averci niente a che fare.
Tutto ciò che avrei voluto in quel momento era farmi una canna e non pensare più a niente, né alle prese a male né alle mille paranoie.
Caroline rimase sconvolta tanto quanto me, se non di più, senza dire niente si rialzò, salutò mia madre e si avvicinò a me afferrandomi per il mento, stringendomi le guance con i suoi artigli e ringhiò:
«Farai la fine di tuo padre».
Le mie vene del collo si gonfiarono, stavo per vomitare tutta la rabbia accumulata, faceva male come un pugno allo stomaco.
Mollò il mio viso lasciandomi anche i segni delle unghie ed uscì dalla porta, Kevin dietro di lei a capo basso la seguì, ma io lo afferrai per il braccio e gli sussurrai:
«Grazie».
Mi guardò con gli occhi pieni d'odio e rispose:
«Avevo qualcosa da dirti, ma adesso sbrigatela da solo. Il karma gira fratè, quando saremo pari ne riparleremo». «Ma di cosa cazzo stai parlando?».
Non rispose, si allontanò lasciandomi da solo con i miei mille punti interrogativi.
Chiusa la porta restammo soli, io e mia madre, la sua espressione con la sigaretta tra le mani era molto nervosa, ma non disse nulla, mi guardò delusa, con i panni sporchi del lavoro ancora indosso. Si alzò per cercare un posacenere, notai i capelli raccolti in uno chignon scombinato e il mal di schiena accentuato dalla posizione curvata.
«Mamma», mormorai, non mi usciva neanche la voce.
«Non dire niente, ha ragione... sei come tuo padre». Si risedette sul divano e si coprì il volto con le mani, il fumo le passava tra i capelli.
«Colpo basso», ridacchiai con gli occhi lucidi e le labbra tremolanti.
Stavo di fronte a lei, incollato con i piedi al pavimento e un fastidioso solletico in gola.
«Non ti capisco Davide, certe volte non sembri neanche mio figlio. Dimmi cosa devo fare? Dimmelo tu ed io lo farò. Sto cercando di venirti incontro, di capirti... ma io proprio non ci riesco».
Alzò il viso e mi fissò, si sorreggeva il volto con la mano, premeva due dita sugli angoli della bocca per evitare che scendessero; era distrutta.
Mi accovacciai a terra e sorressi la testa tra le mani, non sapevo che dire.
«Devi dire alla ragazzina di cui ti sei innamorato che sei un disastro, almeno eviti di rovinarle la vita».
Alzai il viso e la fissai anch'io.
«Credo sia innamorata di un altro», mormorai mordendomi le guance.
Si asciugò le lacrime e si sciolse i capelli, spense la sigaretta sul posacenere e rimase a guardarmi per qualche istante con quel suo volto scavato dalla stanchezza. La magrezza le svelava gli zigomi e i tendini delle braccia a fior di pelle.
«Spero tu sia migliore di ciò che ti sei mostrato».
Il silenzio, dopo le nostre frasi, era assordante. Si alzò in piedi e salì in bagno per farsi la doccia; io tornai in camera e mi strappai il cuore dal petto.
Soffrivo così tanto che mi immaginavo sulle rotaie di un treno, da solo, seduto sul bordo, ad aspettare che qualcuno ponesse fine alla mia sofferenza.
Sophie, sapevo fosse una brava mentalista, mi aveva fottuto il cervello con quel suo sguardo studiato. Era la ragazza con il diavolo dentro, più spietato del mio. Se solo avessi potuto avrei picchiato Edoardo fino a fargli vomitare il sangue; il sangue che mi usciva dalle nocche quando tiravo pugni contro il muro.
L'amore era una maledizione.
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Oltre i miei occhi
RomanceL'amore è incoerenza allo stato puro, un attimo prima sei seduta sulle sue gambe e l'attimo dopo gli stai urlando tutto l'odio che provi, tutta l'amarezza accumulata non solo per colpa sua, ma anche per come sta andando la tua vita. Dalle amiche che...