Capitolo quinto - Come capire il male

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Anno Domini MCCXXXIX

«Dunque è questo, quel che fanno i nobili. Si siedono sulle spalle dei poveri e lasciano che essi cedano e marciscano sotto il loro peso. I poveri campano imbrigliati, a occhi bassi e socchiusi. Vedono soltanto la terra da coltivare e il foraggio per nutrire il bestiame, senza rendersi conto che essi stessi siano i nostri animali preferiti. Un passo falso potrebbe portarli alla rovina, un tentativo di ribellione assicurerebbe morte certa. Per questo la tenacia fatica a instaurarsi nei loro fangosi cuori: hanno paura, e che l'abbiano per sempre» pensava Giselbert, annotando la quantità di denaro accumulato durante la settimana, nella biblioteca sotterranea del maniero. Quel posto, nonostante non fosse immenso, straboccava di manoscritti e pergamene che, oltre a riempire gli scaffali, erano cresciuti come funghi sulla scrivania, dentro e sopra i bauli, per terra e perfino sui gradini delle scale che conducevano laggiù. Una nuvola di polvere soffocava la stanza, giorno e notte, e annebbiava la vista di chi osasse entrare. Quando Karl era al governo, era tutto molto più ordinato. Gli scritti erano accuratamente sequenziati secondo la data, il nome e la provenienza, i bauli contenevano pergamene vuote e sul piano di legno non v'era altro che una penna e un calamaio di peltro.

Durante i primi due anni passati a comandare la contea, non era successo molto di strano: i raccolti erano stati abbondanti, i mercanti guadagnavano con modestia e la criminalità rasentava lo zero. Il cavaliere di Petruscovia non aveva più dato sue notizie, ma Alodia, convinta del fatto che un giorno sarebbe tornato, lo aspettava, assorta nei suoi pensieri. Quasi ogni sera si affacciava sul suo balcone, guardando l'orizzonte e canticchiando frasi d'amore. Dopo che Giselbert ebbe finito il suo compito, egli si alzò dalla sedia; senza perdere tempo a rassettare, salì le scale tornando al pianterreno e incrociando la sorella. «Dove stai andando?» Chiese il ragazzo, con evidente stanchezza. «Nel cortile... ti va di accompagnarmi?» Giselbert acconsentì. Doveva dire due parole ad Alodia e quello sarebbe stato il momento ideale. Si stiracchiò, cercando di restare il più sveglio e attento possibile.

Una volta entrati nella corte del maniero, i due fratelli furono accolti da uno spettacolo di luci che dominava la volta celeste in una notte di luglio. Le stelle dalle mille tonalità, vibranti, sembravano molto più vicine di quel che erano, e in mezzo a loro, una lunga nuvola splendente tracciava la sua strada. Giselbert e Alodia passeggiarono adagio nel giardino. Il maggiore si ricordò dei momenti in cui suo padre, proprio in quel luogo, gli insegnava a destreggiarsi con le armi, per essere preparato in caso di attacco. Aveva imparato alla svelta, e doveva ringraziare i rimproveri di Karl. «Ogni tanto vi guardavo dalla finestra, sai?» Ammise Alodia, come se gli avesse letto nel pensiero: «Sembravate così seri, pronti a...» si fermò di colpo, sbiancando. «Pronti a ucciderci a vicenda» continuò Giselbert. «Sì, esatto. Ho sempre pregato perché nessuno di voi due si facesse male». «E perché?» Chiese di getto il fratello. Alodia si fermò, cercando di formulare invano una risposta. Giselbert poggiò una mano sulla sua spalla, guardandola in modo da farle capire qualcosa. «Vedi, Alodia... il dolore fa parte della vita. Non esiste creatura che non abbia sofferto nemmeno una volta, e l'essere umano non fa eccezione. Non esiste una primavera che non sia nata dall'inverno, né un sole che sia sorto di giorno. Il dolore e la morte non si possono rinnegare: diventeremmo ciechi, vagabondi in un mondo in cui vige la sola luce. E al momento della nostra disfatta, verremmo presi alla sprovvista, disilludendoci nella fredda pioggia della verità». Alodia non replicò. Non perché fosse in completo accordo, ma perché semplicemente non riusciva a capire. Alzò gli occhi verso il firmamento, ammirando i molteplici lumini che lo abbellivano.

«Sai, Giselbert...» disse, cambiando discorso: «sono convinta che le stelle potrebbero dirci il futuro, solo che non sanno parlare». «Ah, sì?» «Sì. Sono così lontane che vedrebbero qualunque cosa, oltre i confini della nostra casa e del mondo. Forse, sanno anche cosa si cela nei nostri animi. Vorrei che potessero dirmi se Amedeo tornerà». Giselbert si infastidì un poco, pensando che il punto della questione fosse ben altro. «Non tornerà, Alodia». Pronunciò con certezza e una leggera rabbia. «Come fai a esserne sicuro?» «Credi che in questi anni non abbia conosciuto altre donne? Credi che il suo cuore sia esclusivamente rivolto a te?» «Oh, non capisci... il suo sguardo, quella sera, mi disse ogni cosa. L'ho visto innamorarsi genuinamente, e non penso che possa dimenticarmi con facilità. Ma, in fondo, è inutile dirti tutto questo... cosa ne sai, tu, dell'amore?» Un sottile strato d'acqua ricoprì gli occhi di Alodia, per poi percorrere le sue guance. Giselbert, notando che la ragazza stesse piangendo, si avvicinò a lei e strofinò il pollice sul suo viso, per asciugarlo. I due giovani si assomigliavano così tanto che qualcuno avrebbe potuto scambiarli per fratelli gemelli. Avevano lo stesso portamento, la stessa corporatura esile, la stessa altezza e anche la stessa ciocca ribelle che divideva la fronte in due metà esatte. Forse, i capelli e gli occhi di Alodia erano leggermente più chiari di quelli di Giselbert, ma a una prima occhiata i colori sarebbero stati uguali. Era come se quei due condividessero la stessa anima e fossero la stessa persona. Il ragazzo sfiorò con una mano le lunghe trecce della sorella. Erano morbide, soffici e setose, lisce come una pietra di fiume.

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