I raggi del sole ottobrino erano coperti da una spessa coltre di nubi. Non che fosse una cosa tanto insolita, in quel periodo dell'anno, come i faggi, che si erano tinti di un bellissimo rosso scarlatto, andando a contrastare col verde dei pini, che veniva riflesso sia dal fiume che dalle pozzanghere sparse per il paese. Ma, dopo la scomparsa di Alodia, nessuno faceva caso ai colori della natura. Sembrava tutto grigio, tutto spento. Perfino gli animali da fattoria sembravano più mesti del solito e, con essi, i loro allevatori. La gente, comunque e puntualmente, si recava al mercato, per discutere del più e del meno con i vicini, e il suono del suo ciarlare ravvivava di un pelo l'area della piazza, delle strade interne e degli edifici.
Giselbert era seduto a tavola e mangiava in completa solitudine, fissando il vuoto. Nonostante avesse il totale controllo sulla sua terra, sulla vita della gente che l'abitava e potesse diventare, senza ripercussioni, la peggiore persona del mondo, come ormai si era messo in testa di essere, non era felice. Non lo era mai stato. Giselbert non rideva se non di perfidia, e ciò lo rendeva allo stesso tempo estremamente serio ed estremamente crudele. Ma era soltanto una facciata, che egli stesso aveva costruito senza neanche volerlo. Era lo strato più esterno del suo cuore: gelido, impenetrabile. Era il luogo della sua tirannia, da dove nascevano frasi agghiaccianti e piani intricati per incastrare il prossimo. Ma nessuno immaginava cosa, davvero, si celava sotto di esso. Nascosto sotto quel gelo, c'era un cuore annerito, marcio, dove si annidava tutto l'odio e il rancore che Giselbert provava nei confronti di se stesso. C'era uno strano, malato istinto che lo spingeva a punirsi, anche fisicamente, con metodi sempre più duri, talvolta potenzialmente letali. E non che gli dispiacesse: tutt'altro. La visione di anni prima non se n'era mai andata, era rimasta lì, come un chiodo fisso; era il suo sollievo, il suo rifugio, la sua vera, inguaribile pazzia. E forse, l'infelicità di Giselbert, in quel momento, non era altro che malsana insoddisfazione.
Quando ebbe finito di pranzare, si alzò con molta lentezza. Pian piano, uscì dalla stanza e salì le scale che lo portavano al piano di sopra, per poter vedere il panorama dalla finestra. C'era molto vento, così tanto che gli alberi sembravano cadere da un momento all'altro. Il cielo prometteva pioggia: forse sarebbe arrivata quella notte, insieme a un bel temporale. Notando Hermann passare dietro di lui, Giselbert si voltò. Il servo stava portando con sé della legna per ravvivare il fuoco del camino. «Hermann» lo chiamò. «Sì, mio Signore?» «Il popolo mi detesta, non è vero?» «Non siete particolarmente amato, purtroppo». «Le tue parole sono troppo delicate, Hermann. Dire che tutti desiderino la mia morte è poca cosa. Tentano in ogni modo di nascondermelo, ma l'ho già scoperto da un pezzo». Ammise, tornando a guardare fuori dalla finestra e tamburellando le dita sul muro, in un moto incessante. «Conoscendovi, ho paura di dove vogliate arrivare». «Capisco». Sussurrò, accennando a un delicato sorriso. «L'unica cosa che posso fare, mio Signore, è consigliarvi di desistere: se sterminerete il Vostro popolo, Veilchenburg cadrà ancor più in rovina di com'è tutt'ora». E mentre il servo continuò a fare il suo lavoro, il conte era perso tra i propri sospiri, poiché Hermann non aveva capito un bel niente. Avrebbe voluto parlare ancora, ma qualcosa lo fermò. In fondo, non aveva bisogno di approvazioni o dissensi di nessun tipo, e chiacchierare gli faceva solo perdere tempo prezioso.
Hermann se ne andò dalla stanza, lasciando Giselbert nuovamente da solo. La legna ardeva, scoppiettando, nel camino; il calore del fuoco si faceva sempre più piacevole. Il conte si girò nuovamente verso l'interno, osservando come, poco a poco, anche i ciocchi più grossi e tenaci cedevano, perdendo il loro potere e dissolvendosi in cenere e carbone come tutti gli altri bastoncini più piccoli. Nella mente del ragazzo, da anni intrappolata nel torbido come un albero coperto di edera, crebbe un'idea nefasta. Assomigliava molto a uno qualsiasi dei suoi soliti pensieri, ma aveva qualcosa di diverso, di più maestoso, di più meraviglioso, che lo spingeva a credere che fosse il giusto sentiero da percorrere. Non v'era alcun motivo per non agire.
STAI LEGGENDO
L'Ultimo Conte di Veilchenburg
Historical FictionXIII secolo: Il giovane Giselbert, signore di una contea tra le Alpi austriache, abbandona i suoi averi e si avventura sotto falso nome nelle terre dell'est Europa. La gente del posto non tarda a riconoscere la sua origine nobile, segretamente legat...