Capitolo secondo - La mano che fu fatale

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Anno Domini MCCXX

Nascosta tra le montagne, tra i colli e gli altipiani, si trovava la verde contea di Veilchenburg. Karl Norman Eisherz e sua moglie Ida ne erano i signori. Lui era alto, dai tratti fini ma severi; aveva dei radi capelli scuri, tra i quali si celava qualche filo bianco; un lungo pizzetto, in cui passava le sottilissime dita continuamente nei momenti di tedio, due piccoli occhi, perennemente socchiusi, in mezzo a due profonde occhiaie. Lei, invece, era più tonda, più delicata, dallo spirito regale. Era una persona che non si sarebbe mai lasciata sfuggire il più insignificante dei dettagli. Lunghe trecce, dal colore del legno di ciliegio e abbellite da un sottile nastro perlaceo, le arrivavano quasi fino ai piedi. Le sue iridi avevano la sfumatura di una mattina invernale e, fissandole, pareva verosimile che certi sguardi potessero tramutare la gente in pietra. Il loro immenso maniero aveva più di cinquanta stanze - molte di cui vuote - disposte sproporzionatamente al suo interno. L'entrata, protetta da una grata di ferro, si trovava sul lato est delle mura e conduceva a un piccolo spazio aperto, oltre il quale un secondo portone dava l'accesso a un atrio dove, generalmente, i signori ricevevano visite importanti e discutevano di politica. A sinistra, dopo un corridoio buio, si saliva per la torre sud, la parte più antica del maniero. Era interamente costruita in legno: mano a mano che ci si avvicinava, infatti, l'odore della pietra svaniva per lasciare il posto a quello delle pesanti e resistenti travi, che avrebbero potuto raccontare tutte le vicende degli antenati degli Eisherz sin dai tempi di Carlo Magno. Subito accanto a essa c'era il torrione, costellato di feritoie e provvisto di un ampio tetto percorribile da cui avvistare qualsiasi nemico. Al centro della fortezza si trovava il cortile, con tanto di portico su due lati e un piccolo pozzo al centro. E mentre nell'ala nord si trovavano le cucine, il salone da pranzo e l'armeria, a sud - accanto al torrione - erano collocati gli alloggi della servitù. A ovest c'erano le scuderie e, nell'angolo opposto alla vecchia torre di legno, altre due torri, più nuove e più alte, fatte costruire per volere della contessa di due generazioni prima, in cui si aveva accesso alle numerose stanze da letto, molte delle quali provvedevano di un balcone. Il maniero era circondato da mura scure come l'ardesia, definite da quattro punti di vedetta; aveva forme strette e allungate, che salivano nel cielo e scavavano il suolo della piccola collina: e proprio lì, sottoterra, si trovavano le anguste segrete, affiancate alla ben più rilassante biblioteca e alla cantina, che conservava decine di botti di vino rosso. Sulla collina, tanti, tanti gradini separavano la fortezza dal villaggio, che occupava tutta la conca.

Tra le misere stamberghe dal tetto nero e dalle pareti biancastre, tra i viali che pullulavano di uomini e donne alle prese con la loro quotidianità, sul piccolo ponte di pietra, sempre gremito di persone che varcavano lo strapiombo sul fiume da nord a sud e da sud a nord, e nelle botteghe degli umili artigiani, si propagava rapidamente la voce di una gloriosa notizia: poco prima che si fosse sciolta l'ultima neve della stagione rigida, il conte e la contessa avevano dato alla luce il loro primo bambino.

Era sera; il cielo plumbeo, coperto da nubi che non lasciavano passare alcun raggio lunare, sembrava infiltrarsi nel tetro maniero, attraverso le finestre e le fessure. L'odore della carne che i cuochi stavano preparando per la cena era arrivato sino al vertice della torre più alta, sino alle profondità della prigione più oscura, sino in una piccola stanza, dove un calmo fuoco ardeva tra la roccia, riscaldando il tremore di Ida, che aveva appena partorito dopo uno sfinente travaglio. Vicino a lei, Karl, con una lievissima lacrima di commozione a scuotere il suo solito cipiglio, sorreggeva la testa della moglie con il braccio, infondendole sicurezza. Lora, l'ansiosa e grassoccia nutrice, che fino a quel momento era quasi nel panico, non appena il bambino emise il primo grido, ringraziò il cielo con un sospiro di sollievo, asciugandosi poi il sudore che le colava dalla fronte. «Vostra Altezza...» disse in un solo respiro, avvolgendo frettolosamente con una spessa coperta il fragile corpo del neonato: «Come intendete chiamarlo?» Karl, alzandosi con solennità, propose il suo stesso primo nome, ma Ida non era d'accordo. «Perché non Giselbert, cuore mio? Trovo che sia davvero elegante». Era stremata, esausta, ma gioiosa. «E sia. Karl Giselbert Eisherz sarà il suo nome» sentenziò il padre con uno sbuffo, non riuscendo né a imporsi sulla moglie, né a essere completamente in accordo.

L'Ultimo Conte di VeilchenburgDove le storie prendono vita. Scoprilo ora