Capitolo primo - L'arrivo a Lubenizza

171 13 34
                                    

Anno Domini MCCXL

Erano ormai lontane le verdi montagne che circondavano Veilchenburg, un minuscolo borgo situato in una dolce conca tra le vette alpine, dove si trovava il castello del signore che governava l'omonima e altrettanto minuscola contea. In lontananza, sotto il sole cocente di una tranquilla campagna, ecco spuntare il campanile di un altro paesino, ben lontano dal vecchio maniero. «Ci fermeremo là, Freya». Sospirò la voce quasi afona del conte, riferendosi alla sua giumenta. La cavalla fece un curioso movimento con il collo, come se, stanca allo stesso modo, avesse capito le parole del giovane nobile, che le rivolse un modesto sorriso. Era pieno pomeriggio: doveva affrettarsi a trovare una locanda dove potersi rilassare. Il cibo che aveva portato con sé stava scarseggiando, ed egli non aveva più voglia di dormire in mezzo ai boschi, dove poteva essere attaccato dai lupi in qualsiasi momento. Aveva lasciato l'Impero di sua spontanea volontà e si dirigeva verso le terre dell'est. Strano, per un conte, viaggiare da solo. Ma non nel suo caso.

La ruvida stoffa di un umile copricapo lasciava una sottile ombra che ricopriva tutto il suo esile corpo. Gli occhi nerastri, quasi svuotati dei sentimenti, guardavano in basso, come per dimenticare qualche vista spiacevole. Aveva obliato, ormai, il profumo delle violette che ricoprivano la sua contea e che le davano il nome. I lontani abiti purpurei e tempestati di gemme, lasciati senza padrone sul tavolo da pranzo della fortezza, avevano ceduto il posto a quattro cenci ben poco raffinati, facendolo sembrare uno sciocco viandante che per disgrazia aveva perso la strada; il che non era poi dissimile dalla realtà, ma ciononostante faceva ridere, ed era una delle poche cose che alleggerivano i pensieri del conte. Con sé, oltre ai pochi viveri rimasti e a una grezza coperta, aveva un piccolo pugnale e un altrettanto piccolo sacco di monete, tra le quali non v'era alcuna traccia di luce dorata. I capelli neri, delicati un tempo, erano diventati secchi e parevano non avere una forma. Un costante dubbio stava pian piano sciogliendo il suo cuore di ghiaccio - epiteto con cui era conosciuto nel suo luogo natio - e non riusciva a darsi pace se non abbandonando, forse per sempre, la terra di cui era signore. Essendo molto giovane, non aveva eredi, e mai, forse, ne avrebbe avuti. Non c'era stato bisogno di scrivere messaggi, affidare la contea a qualche signorotto nelle vicinanze, od occultare in qualche modo la sua fuga: ormai, tutti lo credevano morto e tutti gli amanuensi avevano già impresso con l'inchiostro nero la presunta data del suo decesso. Non era rimasto altro che scomparire, avere un'altra vita, un'altra storia e altri ricordi. Durante le lunghe nottate passate all'aperto, si addormentava contando le stelle, associando alle più brillanti una memoria del suo passato. In una c'era il suo nome, Giselbert, in un'altra la sua gente, e così via. Sarebbero rimaste là per sempre, le avrebbe viste di notte, ma dimenticate al sorgere del sole.

Poco a poco, si accorse di essere davanti alle mura che lo separavano dal villaggio di Lubenizza, la sua meta. Giselbert si asciugò il sudore che bagnava la sua fronte e si strofinò gli occhi per esser certo di non vedere un miraggio. Ma il paese era sempre lì, e il nome del posto, finemente intagliato su un cartello di legno, non era cambiato di una sola lettera. Una guardia fermò con furore lo straniero, il quale rispose nel suo tedesco. Chissà se le genti oltre l'Impero lo sapessero comprendere e parlare; forse i nobili, i mercanti e i viaggiatori. «Il mio nome è Alaric Dornenfeld e provengo dall'Impero!» Rispose il ragazzo, riprendendo vigore. «Siete un viandante?» «È quel che sono». «Entrate».

Il portone si aprì, accogliendolo in un brusio di persone che interruppero le faccende e i divertimenti per osservare, incuriosite, lo straniero che era appena arrivato tra loro. Una grassa signora, che faticosamente riusciva a tenere a bada due bambini vicino a lei, indietreggiò di un passo, distogliendo lo sguardo dal conte. Un vecchio calzolaio gli domandò qualcosa nella sua lingua. Giselbert, non sapendo come rispondere, fece finta di non aver sentito. Scrutò tra le viuzze, mentre si faceva spazio tra la folla, in cerca di un'osteria. Non volendo, inutilmente, dare tanto nell'occhio, scese da cavallo, procedendo con discrezione sui ciottoli delle stradine. «Lo so che hai sete anche tu, bella mia...» disse Giselbert, guardando negli occhi l'animale: «Adesso troviamo dell'acqua, non ti preoccupare». Il ragazzo era strabiliato. Nonostante tutto, Freya gli era rimasta fedele. Questa non dubitava della sua sincerità e nemmeno si aspettava che l'acqua le venisse negata. La mente della gente era ben diversa, e Giselbert lo sapeva. Ma adesso, chissà. Era ancora tutto da scoprire.

L'Ultimo Conte di VeilchenburgDove le storie prendono vita. Scoprilo ora