3 - Paris Hilton

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GRACE.

Appena il cellulare riprende linea, le notifiche iniziano a mandare in crisi il telefono. Siamo ancora sulla pista quando leggo i primi messaggi.

Marissa scrive che sono ancora in tempo per cambiare idea, e allega foto di noi a prendere il sole a sostenere la sua tesi che, lasciare la California per l'Inghilterra, è come ritrovarsi Henry Cavill in hotel, ma scendere al piano di sotto nella stanza di Ron Perlman.

Sammy mi dice che tra un paio d'ore andranno al club, mio fratello Robert si informa sui miei spostamenti, mentre Leo mi scrive che mi chiamerà domani.

Mentre Leo ed io siamo più o meno liberi di fare della nostra vita ciò che più desideriamo, sempre sotto approvazione, Robert, è il cosiddetto erede prediletto.

«Colui che gestirà l'azienda dopo la mia morte», così piace dire al nonno, sempre molto teatrale.

Così siamo cresciuti tutti separati. Io, da quando sono bambina, con Leo, mentre Robert in Italia, al fianco dei capostipiti De Andreas.
Non che la cosa gli dispiaccia più di tanto, trovo che il ruolo gli si addica particolarmente. Molto esigente sul lavoro, duro nella vita, casanova come il nonno da giovane, tanto da avere già un figlio di dodici anni. Stranamente ha messo la testa a posto prima di lui però, che a ottant'anni dà ancora lezioni di corteggiamento. Da un paio di anni, infatti, ha sposato una dottoressa che aveva conosciuto in ospedale quando era stato operato per un incidente in macchina.

«Ti conviene metterti gli occhiali da sole» mi avverte Kale una volta pronti per uscire dall'aeroporto.

«Ma sono quasi le dieci di sera» lo guardo come se fosse impazzito, mentre passiamo le valigie a Kevin. Ogni volta che sono venuta a Londra è sempre stato lui a scarrozzarmi in giro, ma da domani ci lascerà due delle sue macchine, e saremo io o Kale ad utilizzarle.

«Kevin mi ha avvertito che ci sono dei fotografi davanti alla porta girevole».

Ecco, ho sempre sopportato John, Kale e qualsiasi altra presenza con il walkie talkie che mi fosse imposta, e l'ho sempre fatto senza protestare. Ma quando si parla dei fotografi, loro, a parte qualche eccezione, non li ho mai sopportati.

E questo non solo perché non mi hanno mai permesso di andare in giro come se fossi una normale ragazza, ma perché ci hanno fatto del male.
Mi hanno fatto del male.
E non ci sarà mai nessuno che mi convincerà a perdonarli, per ciò che hanno fatto.
Quando ci hanno trattato come se fossimo stati animali da circo, e io sono stata il loro numero preferito.

«Tieni» mi passa i suoi Ray-Ban, mentre lui e Kevin mi scortano fino al suv, per fortuna parcheggiato non troppo lontano.

Sento lo scatto delle macchine fotografiche mandarmi in panne il cervello, proprio come tanti anni fa.

A volte penso che per me sia più sopportabile quando mi fotografano di nascosto, piuttosto che così, con i flash puntati in faccia, e le domande insistenti.

E quel click, quel click della macchina. Quello non lo sopporto, se inaspettato.

«Ragazzi, per favore» sento dire a Kale, mentre mi chiude la portiera e cerca di raggiungere il lato del conducente.

Solitamente, quando arrivo in qualche aeroporto, e so che loro sono lì ad attendermi, infilo le cuffiette e alzo al massimo il volume. Ma questa volta me le sono dimenticate. Complimenti Grace.

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Scendo dall'auto nera salutando Kevin.
È più di un anno che non vengo a Londra e l'ultima volta che l'ho fatto sono stata a casa di Sammy.
Invece, ora, eccomi qui, davanti alla sua casa che, come ricordavo, si erge maestosa tra le altre.
Negli anni è stata ripulita, modificata, quasi distrutta per poi essere ricostruita. È stato un mio volere, perché niente doveva essere più come prima. L'unica cosa che è rimasta uguale a quattordici anni fa è la facciata di mattoncini rossi.

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