8. 9 dicembre 2039

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9 dicembre 2039

Sono le sette meno cinque del mattino e Simone, che di prassi inizia il turno alle otto, è già davanti alla mastodontica struttura ospedaliera, pronto a raggiungere la stanza otto dell'undicesimo piano, dove l'amore della sua vita combatte contro le calunnie della vita stessa, anche un po' per continuare ad esserlo, il suo amore.

Tra le mani sorregge un sacchettino con due brioches calde, una alla crema e una al cioccolato e due contenitori di carta, uno con un fumante cappuccino, uno con un necessario latte e orzo.
Tra le guance un sorriso, di quelli che inspiegabilmente si ergono nonostante il dolore, nati dalle sfaccettature impercettibili di felicità in un incomprensibile tragedia.
Tra le costole un cuore che corre all'impazzata, secondo un atto rivoluzionario contro la paura, quella che lo ha attanagliato all'inerzia, per sei anni.

In quel labirinto di corridoi, segnaletiche, scale e ascensori c'è chi lo osserva pensando sia un matto, per gli occhi immersi nella gioia in mezzo all'annegamento nella disgrazia, ma a Simone non importa perché è convinto, che se anche loro conoscessero Manuel, avrebbero gli stessi occhi suoi.

«Dottor Balestra che ci fai a quest'ora qui?» la caposala non nasconde un tono malizioso, infondo la motivazione della sua costante presenza in reparto, l'hanno intuita tutti «Vittoria, lo sai che chi si fa gli affari suoi campa cent'anni?» lo dice scherzando mentre impaziente procede a passo svelto «e chi ci vuole arrivare a cent'anni se posso sapere chi ha rubato il cuore del mio dottore preferito.» ride, si gira verso di lei, continua a camminare all'indietro pur di arrivare il prima possibile da lui «invece io ci tengo a te, quindi mi sa che camperai cent'anni.»

Questa conversazione urlata arriva come un bisbiglio alle orecchie di Manuel, che è sveglio già da un pezzo, a lottare con l'immagine del figlio intrappolata nei suoi pensieri.
In quel bisbiglio riconosce però un sollievo di felicità.
Non sa bene il perché ma si raggomitola su un fianco e finge di dormire ancora, probabilmente nella speranza di una carezza salvifica.

Simone entra in punta di piedi, per non provocare rumori bruschi.
Seduto su una porzione di letto si concede una manciata di secondi per osservare i dettagli della sua smisurata bellezza, e quel senso di impotenza di alcune sere precedenti si volatilizza.

«Ehi.» gli sfiora la guancia scoperta, e Manuel deve trattenersi per non colorare il suo volto con un automatico sorriso.

Le dita di Simone si perdono sulla sua pelle morbida e non capisce dove cominciano e finiscono i brividi scaturiti da quel contatto.

«Ehi» simula uno sbadiglio distratto, si stiracchia «che ora è?» simula una voce impastata sotto lo sguardo imbambolato di chi per lui un estraneo non riuscirà mai ad esserlo «è l'ora del nostro terzo appuntamento.» sfodera la colazione comprata al bar vicino l'ospedale.

«Dottor Balestra vedo che da quando ha cominciato a correre non riesce più a smettere.» e seppur possa essere letto come uno scherzo, tra le righe si nasconde una profonda verità «tu dici che vado troppo veloce? A me sembra di non correre abbastanza invece.» ed è una volontà che scalpita nel petto, un desiderio irrefrenabile e sotterrato per troppo tempo, libero finalmente di viaggiare.

«Che intendi?» è perplesso «intendo che in ventiquattro ore ci siamo presentati, abbiamo avuto la prima colazione insieme e la prima discussione sul cibo, poi abbiamo avuto la nostra prima sera insieme e il primo ballo» si avvicina con movimenti lenti «e adesso sono qui perché non riesco a starti lontano a chiederti un terzo appuntamento» gli abbassa la mascherina «eppure non abbiamo corso abbastanza» appoggia la fronte sulla sua «non senti anche tu che ci siamo persi qualcosa?»

Simone non avverte più quella voce rimbombare tra le pareti spoglie della sua testa.

Le pareti le ha riempite con i disegni di quel bambino che con un cerotto ha lenito ogni ferita dolorosa, e si sforza bene, tra i colori sbordati dai confini di figure stilizzate, ascolta l'eco della sua risata.

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