0. 19 maggio 2045

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19 maggio 2045

«Buongiorno. Sono qui per prendere mio figlio.» Simone si rivolge con grande fretta alla bidella che lo scruta perplessa.

É trafelato e madido di sudore come se avesse appena corso una maratona di mille chilometri «il nome di suo figlio?»

«Jacopo Ferro.» afferma con orgoglio mentre annaspa le parole sul suo fiato corto.

«Motivazione?» quante cose vuole sapere, biascica Simone nella sua mente, mentre le risponde con svogliatezza «problemi di famiglia.»

«Va bene. Vado a chiamarlo subito.» lei di tutta risposta alla sua rapidità, si rialza con una calma flemma.

Lui vorrebbe urlargli che tutto questo tempo che sta impiegando per un'azione così semplice, loro non lo hanno affatto.

Che il tempo non si spreca.

Attende impaziente, spostando il peso del suo corpo da una gamba all'altra con spasmodica frenesia.
Si interrompe soltanto quando vede suo figlio dirigersi verso di lui, con lo zainetto saldo sulle spalle e un'espressione preoccupata palese sul viso.

«E' successo qualcosa?» chiede con un pizzico di timore che si trasforma in una valanga nell'istante in cui Simone si inginocchia davanti a lui per incastrare gli occhi nei suoi «ti prometto che quando arriviamo a casa capirai tutto ma adesso tu promettimi che corri insieme a me, va bene?» e Jacopo che non riesce a comprendere la sua richiesta o leggere le sue emozioni attraverso il loro sguardo abbracciato, ma per l'assoluta fiducia che nutre nei suoi confronti, asserisce «va bene.»

«Allora corriamo piccoletto.» lo esorta ripensando alle parole che pronunciò Manuel anni prima, quelle che decise di costudire nell'angolo dei ricordi tra l'anima e il cuore e che conserverà per tutto ciò che gli resta.

Meglio correre con il rischio di schiantarsi, ma senza perdersi nulla, piuttosto che restare fermi, o andare piano, per paura di farsi male, che tanto prima o poi arriverà qualcos'altro a distruggerti. Che la vita oltre ad essere breve è anche imprevedibile, sfuggevole, e fidati, corre aldilà del nostro controllo.
Allora meglio prenderla per il culo, e correre più veloce di lei nella direzione opposta, ma andare piano quello mai, fai solo il suo gioco.

2 gennaio 2040

Ancor prima di iniziare ci insegnano che saremo destinati a finire.

Non si sa quando o dove o come ma quel momento, quel salto fatale nell'ignoto, sarà una coltre paralizzante di paura e manto agonizzante di rassegnazione a cui non si potrà scampare. Che sia preannunciato o inaspettato o tedioso o silente o assordante. Come a inculcarci una parvenza di prontezza all'istante in cui l'esistenza disintegrerà il nostro corpo e per esortare il nostro corpo stesso a godere di ogni briciola illusoria di tempo che ci verrà concesso.

È ciò su cui ragiona Simone, ora che dinanzi all'immagine del limbo, quel filo sottile su cui anime erranti si destreggiano in bilico tra la vita e la morte, si domanda perché nessuno cerchi di prepararci invece alla fonte di inesauribile dolore scaturita dalla fine delle persone che amiamo.

Forse perché non è possibile, si ripete mentre osserva con le lacrime agli occhi il suo Manuel, disteso inerme su di un sadico letto, collegato a miracolosi cavi, legati stretti a macchinari che non assicurano niente, se non secondi a cui seguono secondi incerti.

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