family

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***

Stringo piano la mano di Suga posata sulla mia coscia, mentre aspettiamo ad aprire la mail che potrebbe cambiarci la vita.

È arrivata un ora fa, ma ne io ne Suga abbiamo avuto il coraggio di aprirla.

Nessuno dei due è pronto a sapere il risultato del test, che sia positivo o negativo.

Era la nostra ultima speranza. Dopo questa non ci sarebbero più state possibilità. Non perché non potessimo, ma perché saremmo arrivati al capolinea.

Le nostre mani sudano, ma non si staccano.

Gli uccellini cinguettano fuori dalla finestra e il sole attraversa le persiane, tirate su a metà dalla fretta, illuminando il salotto.

Tutto è rimasto esattamente come un'ora prima.

La mia tazza, riempita di caffè fino all'orlo è ancora sul lavello della cucina, esattamente dove l'avevo lasciata quando Koshi mi aveva gridato dal salotto che l'ospedale aveva mandato i risultati.

Quella di Suga invece, riempita solo fino a metà vista la sua predisposizione al tè invece che al caffè, è abbandonata affianco al portatile sul tavolino del salotto.

La schermata è fissa sulla posta di Suga e la mail dell'ospedale troneggia in cima.

Faccio scorrere gli occhi all'orologio in basso a destra del computer; le 9.08.

La mail è arrivata alle 8.12 precise.

Suga al mio fianco non fiata, non si muove, non sembra neanche che respiri.

Percepisco la sua ansia. È la stessa delle precedenti. Non cambia mai. A cambiare ogni volta sono i risultati.

"dovremmo aprirla"

Silenzio.

Lo capisco, neanche io vorrei aprirla e rimanerne deluso. Neanche io vorrei aprirla e scoprire che il nostro più grande desiderio non si potrà mai avverare. Neanche io vorrei aprirla e dopo di che tornare tranquillamente alla nostra vita come se nulla fosse.

Però ho bisogno, abbiamo bisogno, di toglierci questo peso.

Abbiamo bisogno di scoprire se iniziare a fare compere per tre anzi che per due, e sostituire le birre con il latte o se invece avanzare di livello e invece del latte comprare l'alcolico più scadente ed economico per reprimere il dolore.

"Lo so" è flebile, a mala pena lo sento.

Però nessuno si muove. Nessuno si sporge verso il computer per aprire la mail. Nessuno osa.

Koshi al mio fianco prende un respiro profondo, chiude gli occhi e osa.

Lui che tra i due ne uscirebbe più devastato, fa il grande passo.

Due pagine di mail.

Ci sono tante belle parole, che pero ne io ne Suga abbiamo il tempo di leggere.

È solo una la parola che a noi interessa e mentre Suga scorre tra le parole sperando di scorgere qualche segnale sul risultato finale ho il tempo di ripensare ai due anni appena passati.

La ricordo ancora la sera in cui io e Suga affrontammo l'argomento.

Era aprile, lui stava preparando la cena mentre io avevo appena fatto la doccia e lo osservavo cucinare seduto al bancone.

"Ti piacerebbe diventare papà?" chiese, mentre tagliuzzava una carota in piccoli pezzettini.

Quasi mi strozzai con la saliva. Era una domanda a cui non ero pronto, e a cui non avevo mai pensato.

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