s e t t e

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Penso spesso alla morte.

Forse è un po' perché sono depressa, forse è un po' perché fino a poco tempo ero sul punto di suicidarmi.
Sinceramente ormai non lo faccio nemmeno apposta. Sono pensieri intrusivi che si fanno spazio nel tessuto cerebrale, avvelenandone ogni singolo millimetro poco per volta con questa specie di cruccio. Fanno capolino quando a meno te l'aspetti come dei bambini pestiferi che giocano ad acchiapparella, ti si attaccano addosso come se avessero la super colla.

E' buffo come un attimo tu cammini su questo mondo, le tue scarpe calpestano l'asfalto del marciapiede e il vento ti sferza il viso e subito dopo tre metri sotto terra, immobile, nient'altro che un sacco che contiene carne in via di putrefazione e ossa.

Siamo qualcosa e poi diventiamo niente. Polvere. Frammenti. C'è una certa ironia.

A volte mi trovo a pensare al mio cuore che smette di pompare il sangue nelle arterie, alle mie sinapsi che smettono di funzionare, all'aria viziata della stanza che smette di entrarmi nei polmoni. Proverei qualcosa tipo un dolore lancinante e insopportabile, oppure assolutamente niente?

Mi chiedo se cadere da un tetto faccia così male. Intendo...se mi lancio da quel famoso edificio di tre piani e muoio subito, quanto soffrirei? Sentirei tutte le mie ossa spaccarsi, black-out completo e basta?
Non me ne importa molto ma vorrei davvero ridurre le sofferenze al minimo, farla finita con qualcosa di veloce e indolore.

Sono codarda. Forse Maverick aveva ragione, forse dovevo provare qualcos'altro.

O forse no.

Forse dovevo proprio buttarmi da quel fottuto tetto e tanti saluti.

"Tu che ne pensi, Kat?"

E fu come riemergere dall'acqua dopo interminabili minuti di apnea, i polmoni che bruciavano e la gola secca. Aprii e chiusi un paio di volte gli occhi solo per incontrare l'espressione genuinamente incuriosita di Leigh, la testa inclinata leggermente di lato quasi come faceva mia madre quando mi chiedeva come stessero andando le cose a scuola. Mi irritava.

"Non stavo ascoltando", risposi ricambiando la sua occhiata. Leigh Donovan era il capitano della squadra delle cheerleaders della nostra scuola, una ragazza che poteva essere tranquillamente scambiata per una modella di qualche rivista famosa a causa delle sue fattezze quasi fiabesche: il naso dritto, gli occhi da cerbiatta e la pelle lucente. La sua aria delicata nascondeva però una delle persone più scassacoglioni che io avessi mai conosciuto.

Cliché? Forse.

In tutta risposta la ragazza alzando gli occhi al cielo con fare drammatico per poi sbuffare rumorosamente. Sapevo perfettamente che non era affatto infastidita né dal mio tono né dalle mie parole, ma deve sempre fare un po' di scena come sempre.

"Stavo dicendo, Katherine, che cosa ne pensassi della Princeton University come college a cui iscriverti. Alcuni nostri compagni sono già sicuri di volerci andare." La sua voce melliflua mi fece venire voglia di darle un pugno in faccia e l'unica cosa che in quel momento mi fermava era il fatto che ero seduta in un tavolo al fondo di un diner , molto simile a quelli delle sitcom, circondata da almeno una cinquantina di persone. Di cui cinque erano mie compagne di squadra. Di cui una era Lily fottutissima Jones, che in quell'istante si stava mordicchiando nervosamente la sua cannuccia colorata evadendo il mio sguardo.

Teneva la testa incassata tra le spalle, a disagio, come se non fosse stata lei a trascinarmi con loro nel locale venti minuti prima. Le lanciai un'ultima occhiataccia prima di parlare, giusto perché si sentisse ancora più in colpa.

Lily aveva sempre voluto entrare a fare parte del gruppo dei popolari, quelli che in mensa hanno il loro tavolo speciale super riservato e che nei fine settimana organizzano i festini con più alcol che persone, e per qualche ragione pensava di volermi includere nel suo piano di ascesa sociale. 

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