XXV

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«Forza. È ora di svegliarsi» disse la voce. Timoteo si rotolò nel letto e mugugnò a bassa a voce.
«No. Ho sonno» rispose a denti stretti con la voce impastata dal sonno.
«Muoviti. Non abbiamo molto tempo» insistette l'uomo.
Timoteo si girò dall'altra parte e aprì un poco le palpebre per lasciare che la luce filtrasse attraverso le ciglia. Scorse le piastrelle rosse sul pavimento del terrazzo di Rocca Scarlatta e sussultò. Per un momento aveva pensato di trovarsi nella sua vecchia cella e che quella fosse la voce del padre.
«Non voglio svegliarmi. No!» protestò, ghermendo le coperte con le mani. Non voleva essere trascinato via dal conforto che gli dava dormire. Esausto com'era, era precipitato in un sonno senza sogni che gli aveva fatto dimenticare tutto per un istante. Non voleva abbandonarlo.
«Muoviti!» questa volta il tono di Oreb fu molto severo. Fece per agguantare il polso del ragazzino, ma Timoteo spalancò gli occhi e si ritrasse stizzito.
«Non toccarmi!» esclamò «Adesso mi alzo»
Oreb annuì e si fece da parte mentre osservava il bambino strofinarsi i bulbi oculari. Timoteo rivolse uno sguardo indispettito al cacciatore, ancora arrabbiato per il modo in cui lo aveva trattato finora. Si sedette sul letto e puntò i palmi delle mani sul materasso, godendosi per l'ultima volta la sensazione di pace momentanea che questo gli aveva donato, poi si alzò in piedi e tirò su col naso.
«Coraggio, seguimi» disse Oreb, uscendo dalla camera a passo spedito. Timoteo lo seguì strascicando i piedi e i due iniziarono a percorrere a ritroso la sequela di corridoi che avevano attraversato poche ore fa.
«Come sta Isaia? Si è svegliato?» domandò il bambino con voce brusca.
«Sì. Ma non lo potrai vedere per un po'»
«E perché?» Timoteo si accigliò e accelerò il passo per star dietro a Oreb.
Il cacciatore non rispose e si limitò a sbuffare mentre scendeva la rampa di scale che li avrebbe condotti alla sala principale. Timoteo fece un'espressione disgustata quando la puzza del banchetto li raggiunse attraverso l'aria dei corridoi. Chissà in che condizioni era la sala da pranzo. Tese le orecchie per controllare se il chiasso dei cacciatori fosse ancora forte come prima, ma con sua grande sorpresa non sentì nulla. Anche la pioggia era finita e adesso i corridoi della fortezza erano ammantati di un silenzio spettrale. Quando i due sbucarono nel chiostro collegato alla sala da pranzo, la luce del sole sorgente trapelò dalle nubi stagliandosi dietro i cipressi e le colonne doriche. Timoteo puntò gli occhi al cielo, ancora grigio e nuvoloso, e sentì dei cinguettii echeggiare dai giardini della rocca. Dopo il soffocante frastuono del banchetto, quei trilli gli sembrarono un canto dolcissimo alle orecchie.
«Di qua» disse Oreb, dirigendosi verso la sala da pranzo. Timoteo lo seguì senza staccare gli occhi dalla luce appannata del primo mattino e sgranò gli occhi quando i due sbucarono nel salone del banchetto. Più che i postumi di una cena, sembrava che tutt'intorno a loro ci fossero i postumi di una battaglia. Vomito e liquidi corporei di ogni tipo avevano impiastrato il pavimento. I tavoli erano quasi tutti rovesciati e gli avanzi di cibo erano stati sventrati e mischiati al vino coagulato tra abiti e corazze caduti a terra. Alcuni discepoli giacevano a terra circondati dall'immonda catasta di detriti, forse svenuti per il troppo vino o forse uccisi dall'innaturale follia che aveva stregato il banchetto. Il fumo degl'incensi non si era ancora dissolto, intrappolato tra le spesse mura, e si era afflosciato in una specie di nebbiolina nauseabonda che si appiccicava sui mucchi grumosi di carne e sulle carcasse luride di grasso. Timoteo adocchiò la corona di vertebre della sera prima in mezzo a una pozzanghera di vomito e distolse lo sguardo, stomacato. Si guardò intorno in cerca delle guardie che pattugliavano l'ingresso e le latrine ma anche loro erano sparite. A parte per i corpi riversi a terra, sembrava proprio che non ci fosse più nessuno nella sala da pranzo.
Oreb continuò imperterrito a camminare e si diresse verso il portone d'ingresso. Sembrava socchiuso e non c'era nessuno a fargli la guardia. I due giunsero indisturbati presso la porta d'ingresso, stando attenti a non calpestare i resti del banchetto, poi camminarono lungo l'atrio di bronzo e infine uscirono dalla fortezza. Timoteo inspirò profondamente, lieto di poter tornare a respirare la fresca aria marittima dopo tutto quel tempo, poi si guardò attorno. La strada che conduceva al molo era deserta. Ora che il sole stava sorgendo, il bambino poteva vedere chiaramente tutte le barche ormeggiate sotto la scogliera e gli isolotti paludosi che circondavano il bastione. Dunque le navi erano ancora lì e Isaia doveva ancora essere nella fortezza. Oreb si fermò un attimo e scrutò i moli di pietra, la fronte corrugata, poi iniziò a scendere i gradini guardandosi intorno con circospezione.
«Non fare rumore» intimò a Timoteo. Il bambino annuì e seguì il cacciatore nella discesa verso il molo. Mentre guardava i propri piedi per non scivolare, gli parve di scorgere qualcosa in mezzo ai cespugli. Aguzzò la vista e sussultò quando scorse un braccio pallido e sudato nascosto dietro gli arbusti. Timoteo lo esaminò. Doveva essere il braccio di un qualche cacciatore morto, visto che l'erba tutt'intorno era imbevuta di sangue fresco. Gli parve di scorgere una spallina attaccata al braccio mentre continuava a scendere i gradini di pietra. Forse era una delle guardie. Timoteo continuò a guardarsi intorno man mano che proseguiva lungo la scalinata e la sua teoria sembrò dimostrarsi fondata. C'erano molti altri corpi morti sulla scarpata, tutti con dardi conficcati nella schiena, e il bambino li osservò senza pensare nulla. Era troppo concentrato sul pensiero di Isaia per indignarsi di nuovo di fronte alla morte. Magari era stato lui a uccidere tutte quelle guardie e ora lo aspettava sulla barca. Lo avrebbe rivisto presto, ne era sicuro. Anche se Oreb era malvagio, voleva bene a suo fratello e li avrebbe salvati entrambi.
I due giunsero presto sul molo di pietra. Timoteo squadrò il mucchio d'imbarcazioni ormeggiate in cerca della loro barca, ma non riuscì a vederla. Anche quella di Jawed era sparita. Oreb fece qualche passo in avanti e s'inginocchiò per slegare le cime che tenevano ormeggiata una delle barche dei cacciatori. Slegò tutte le corde meno una, lasciando solo quell'unica cima a tenere la barca ancorata al molo, poi si alzò e fissò negli occhi Timoteo.
«Isaia arriverà presto» disse con voce grave. Il suo viso era molto severo e le sue narici pulsavano.
«Ti raggiungerà dopo l'alba, non temere. Tu devi nasconderti in questa barca, sotto le coperte, e aspettare finché non arriverà»
«Non è la nostra» rispose Timoteo.
«Lo so. La vostra barca non c'è più» Oreb sospirò profondamente. Il bambino annuì e si morse il labbro. Non comprendeva le parole del cacciatore, ma la brutta sensazione di prima stava tornando a farsi viva.
«Nasconditi sotto le coperte» continuò Oreb «e non farti vedere per nessun motivo. Potrai farti vedere solo quando sentirai Isaia avvicinarsi. Solo allora potrai uscire e chiamarlo così potrete andare via insieme»
«Quando arriverà?» domandò Timoteo.
«Presto. Quando il sole sarà sorto del tutto. Fino ad allora devi restare nascosto. Se Isaia non dovesse arrivare – Oreb armeggiò con la cintura ed estrasse un pugnale ricurvo dal fodero – se non dovesse arrivare, dovrai tagliare l'ultima cima con questo»
Timoteo rabbrividì alla vista del pugnale. La lama era incurvata come l'artiglio di un'aquila e l'elsa era liscia, di un materiale freddo e nerastro. Oreb gli porse il pugnale tenendosi a distanza e attese guardandolo dritto negli occhi. Le sue pupille brillavano di aspettativa, eppure sembravano anche velate di amarezza, come se i suoi pensieri si fossero spaccati a metà. Timoteo esitò a lungo prima di allungare la mano verso il pugnale. Le parole di Oreb lo avevano improvvisamente turbato. Non voleva prendere quella lama. Non sarebbe stato capace di abbandonare l'isola senza Isaia. Quando le sue dita si strinsero intorno all'elsa, una strana angoscia s'impossessò di lui. Fissò il pugnale con sguardo titubante mentre ritraeva timidamente il braccio. Il pensiero di doverlo utilizzare lo nauseava. Anche se era solo una precauzione, materializzava la possibilità che Isaia potesse non tornare, e Timoteo voleva cancellare quel pensiero dalla mente.
«Coraggio, nasconditi» gl'intimò Oreb, scostandosi per lasciar passare il ragazzo. Timoteo lanciò un'ultima occhiataccia al cacciatore prima di salire sulla barca. Si sedette sul bordo del molo stando attento a non ferirsi col pugnale, poi si lasciò cadere sull'imbarcazione, che ondeggiò violentemente sotto il suo peso. Infine si accucciò sul fondo della barca e si coprì con il telone fradicio di pioggia. Un po' di luce rossastra filtrava attraverso il tessuto. Timoteo sentì il proprio respiro rimbombargli nelle orecchie lì sotto e cercò di assumere una posizione abbastanza comoda stando attento a non lacerare il telone col pugnale.
«Mi raccomando, non uscire per nessun motivo. Solo se sarai certo che Isaia sta arrivando» gli ripeté Oreb.
«D'accordo»
Oreb emise un mugolio per far capire che aveva sentito, poi senza aggiungere altro si allontanò frettolosamente dal molo. Timoteo sentì i suoi passi nervosi farsi sempre più flebili man mano che si dirigeva verso la Rocca abbandonandolo sotto quel telone puzzolente. Strinse saldamente le mani sul pugnale e sbuffò. Stava ricominciando a sudare come durante il banchetto. I passi di Oreb divennero quasi impercettibili e poi svanirono del tutto, riempiendo il bambino di solitudine. Gli unici suoni ora erano lo scalpitare del sangue nelle sue orecchie, il suo respiro ansimante e lo sciabordio delle onde contro la barca. Timoteo stiracchiò le gambe, ancora intirizzite dal sonno, e tornò a perdersi nei propri pensieri mentre il tempo si dilatava. Erano pensieri molto più cupi del solito, ma lui non poteva farci nulla. Uno strano tepore lo avvolse man mano che i minuti passavano al ritmo dei rollii della barca. Ogni suo nervo era in allerta, pronto a captare il passaggio di Isaia, e al contempo era come se la sua mente si fosse spenta. Timoteo sospirò ancora una volta e cominciò a giocherellare con le pieghe del telone. L'attesa sarebbe stata snervante, lo sentiva.

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