Isaia e Jawed fecero appena in tempo a infilarsi nella galleria quando un'altra pioggia di frecce precipitò sui Discepoli rimasti nell'arena. Le urla si mischiarono a quello che sembrava un coro di muggiti bestiali e le spade iniziarono a stridere mentre il sangue colava giù dagli spalti. L'ombra della galleria inghiottì i due compagni, che corsero affannosamente nel buio con l'adrenalina a mille. Jawed controllò dietro di sé con la coda dell'occhio. Sembrava che i Taurarchiaci, come li avevano chiamati, non li stessero seguendo. Le strilla dei Discepoli di Viburnia si fecero più sfocate man mano che i due correvano lungo il corridoio sabbioso e la luce si fece più tenue. Versi di animali sconosciuti provenivano dalle gabbie che comunicavano con corridoio, ma a Isaia non importava. Quella era un'opportunità che non si sarebbe ripetuta. L'unico obiettivo era uscire da lì lottando all'ultimo sangue e qualsiasi altra distrazione non aveva importanza alla luce di quello spiraglio di speranza.
I due compagni svoltarono bruscamente a destra per evitare un manipolo di gladiatori e continuarono a correre lungo la galleria fino a raggiungere una scalinata. Salirono in fretta, guardandosi intorno per controllare che non ci fossero guardie, poi s'infilarono in un cunicolo interno alle mura. La spada del persecutore sbatté contro i mattoni di pietra e il sangue gli macchiò i gambali. Si sentiva un gran frastuono rimbombare nella fortezza. I cacciatori rimasti dovevano essere intenti a organizzare una qualche difesa in mezzo al trambusto. Isaia riusciva a sentire muggiti, urla di dolore e il cozzare delle lame attraverso le pareti. Sperò che quei corridoi portassero lui e Jawed lontano dalla battaglia, ma era impossibile orientarsi tra i cunicoli di Rocca Scarlatta.
I due compagni si fermarono quando il corridoio terminò con una porta di legno. Isaia la sfondò con un calcio, facendo trasalire il cartografo, e si guardò intorno. Tutt'intorno a loro era pieno di botti e scaffali colmi di bottiglie polverose. Dovevano essere sbucati nella cantina. Isaia attraversò la stanza, roteando le spalle per scaldare i muscoli, poi si avvicinò al portone dall'altra parte del locale. Sentì i passi di qualcuno che correva dall'altra parte e fece cenno a Jawed di fermarsi. I due attesero che i passi scemassero, poi Isaia aprì la porta e uscì dall'altra parte. Sbucarono in una sorta di chiostro di pietra e si schermarono gli occhi per abituarsi alla luce che penetrava dalla piazzola centrale. C'erano diversi cadaveri mutilati intorno a loro, tutti Discepoli di Viburnia, e Isaia li osservò con la fronte corrugata. La furia dei Taurarchiaci nello strappare braccia e gambe si avvicinava quasi alla brutalità con cui lui aveva massacrato i gladiatori nell'arena. Clangori di armature provennero da una direzione indistinta e strilla di dolore risuonarono da un'altra. Isaia roteò su se stesso, la zweihänder ben stretta in mano, ed esaminò le porte che s'immettevano nel chiostro. Era impossibile capirci qualcosa in quel labirinto di corridoi che si sovrapponevano e si intersecavano tra loro. Non c'era da stupirsi che la rocca fosse stata conquistata così tante volte.
Improvvisamente un odore familiare giunse alle narici di Isaia. Era lo stesso puzzo che aveva dovuto sopportare durante il banchetto. Ne era certo, aveva lo stesso aroma d'incenso misto a sudore e feromoni. E sembrava provenire da destra, dove i rumori della battaglia erano più forti. Isaia si diresse a passo sicuro verso quella direzione, seguito dal cartografo, e si preparò a combattere ancora una volta. I due attraversarono un paio di saloni che parvero loro familiari e sgranarono gli occhi non appena raggiunsero la sala del banchetto.
I Discepoli di Viburnia stavano combattendo strenuamente contro gli aggressori sui resti marcescenti della cena. Disorganizzati e colti alla sprovvista, si erano sparpagliati per il salone nel tentativo di fermare la fiumana di guerrieri che aveva invaso la sala, ma i Taurarchiaci erano troppo forti. Le asce spezzavano gladi e archi come fuscelli di legno e la furia dei muggiti da battaglia sovrastava ogni straziante grido di dolore. Jawed fece un passo indietro non appena vide in che stato era la sala del banchetto, ma dovette ingoiare la paura quando Isaia vi si addentrò camminando con sicurezza. Il persecutore esaminò la sala, tenendo d'occhio i cacciatori più vicini, e si diresse a passo sicuro verso la porta d'uscita senza curarsi della battaglia. Il furore per il tradimento di Oreb divampava ancora dentro di lui, perciò non aveva alcun timore. Nessuno poteva scalfirlo – nemmeno il guerrieri più forte della setta – fintantoché quell'ira sconfinata ardeva nel suo petto.
Jawed seguì il compagno guardandosi intorno freneticamente. Soffocò un grido di spavento quando un Taurarchico poco distante si voltò verso i due compagni con gli occhi che brillavano di follia.
«Un cavaliere! Gloria eterna!» muggì con una voce che a malapena sembrava umana, poi strusciò il piede sul pavimento e corse verso di loro.
«Là!» gridò Jawed. Isaia si voltò fulmineo e alzò la spada. Il guerriero mulinò l'ascia con incredibile brutalità, facendo turbinare la nebbiolina che aleggiava nella sala, e Isaia riuscì a deviare l'arma con un fendente della spada. Sentì i muscoli del braccio scricchiolare e lacerarsi sotto tutta quella forza. Il Taurarchico ghignò beffardo e lanciò un secondo affondo, caricando tutto il peso del corpo sull'ascia. Con un'agilità che solo l'adrenalina poteva dargli, Isaia schivò il colpo spostandosi di lato e si allontanò di qualche passo mentre l'altro menava altri fendenti. Attese che quello finisse di agitare l'arma, controllando l'andamento della battaglia intorno a lui, poi rispose vibrando la spada verso il collo del cacciatore. Il Taurarchico parò il fendente con il manico dell'ascia e spinse indietro il persecutore, che si sbilanciò lievemente sotto quella forza. Il braccio iniziava a dolergli troppo; era quasi insopportabile. Isaia scosse la testa e inspirò profondamente. Doveva smettere di giocare sulla difensiva e sfruttare di più l'odio che lo aveva portato a massacrare i gladiatori.
Il Taurarchico alzò minacciosamente l'ascia, continuando a sogghignare mentre caricava un fendente di potenza disumana, quando un'ondata di liquido biancastro lo investì. Jawed aveva raccolto un secchio pieno di vomito da terra e glielo aveva rovesciato addosso da dietro. Gli occhi di Isaia brillarono. Era una distrazione perfetta. Veloce come una saetta, si scagliò in avanti con i piedi che scivolavano sul pavimento e affondò lo spadone mirando al petto. Il guerriero non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa lo aveva investito, scombussolato dall'odore del vomito, che la punta della spada gli trapassò il petto sgretolando le costole e tranciando le vene. Isaia sfilò la lama dal petto e lo colpì al braccio, impedendogli di difendersi, poi gl'inflisse il colpo letale alla carotide. Il corpo del Taurarchico si accasciò a terra e sangue e vomito si mischiarono assieme in una pozzanghera nauseabonda. Jawed lasciò andare il secchio. Restò immobile qualche secondo, ansimando come un cane, poi seguì il persecutore verso l'uscita.
Intorno a loro, i Taurarchiaci stavano guadagnando terreno massacrando sempre più Discepoli. Una volta superata la battaglia, c'erano solo poche decine di metri che li separavano dall'uscita. Era la loro unica possibilità di fuga. I due compagni riuscirono a percorrere un paio di metri, girando intorno a tavoli rovesciati e cadaveri di cacciatori, ma altri due Taurarchiaci li notarono e corsero verso di loro.
Questa volta Isaia era preparato. Schivò il fendente del primo guerriero, poi sollevò il gomito per parare l'ascia del secondo. La lama gli sfiorò l'armatura, rischiando di ammaccarla, ma Isaia strinse i denti con tanta forza da sentirne le radici spezzarsi e riuscì a mantenere la guardia. La spossatezza per il combattimento dell'arena iniziava improvvisamente a farsi sentire. I muscoli stavano rispondendo debolmente all'adrenalina e il dolore per il braccio dislocato stava crescendo troppo in fretta. Isaia caricò tutta la sua forza sul braccio e respinse il guerriero, che inarcò il sopracciglio alla vista di una tale determinazione. Si scambiò uno sguardo d'intesa con il compagno, che era anch'egli arretrato, ed entrambi sogghignarono prima di lanciarsi all'attacco. Isaia fu costretto ad arretrare di uno, tre, cinque passi. Le asce mulinavano nell'aria falciando ogni metro di distanza dal persecutore in pochi secondi. Jawed arretrò insieme al compagno e controllò freneticamente i dintorni nel tentativo di guardargli le spalle. I due Taurarchiaci continuarono ad attaccare, spingendo gli avversari sempre più vicini alla battaglia, e i loro ghigni si allargarono vistosamente quando Isaia cominciò a incespicare sui suoi passi. Il suolo era troppo sdrucciolevole per combattere agilmente, completamente incrostato di vino e liquidi corporei, e i tavoli rovesciati intorno a lui rendevano il campo di battaglia una trappola letale. Jawed si girò ancora una volta, gli occhi annebbiati dalla paura, e spalancò la bocca quando vide Oreb emergere dalla confusione della battaglia.
«Giù!» gridò il cacciatore. Isaia non riuscì a pensare, tanto era stravolto dall'imminente sconfitta, e qualcosa di istintivo lo spinse ad abbassarsi in avanti. Oreb prese la mira, reggendo saldamente la balestra, poi scoccò un dardo verso il Taurarchico più vicino. La freccia sibilò nell'aria, passando sopra il capo di Isaia, e si conficcò nel collo del guerriero. Il Taurarchico perse immediatamente l'equilibrio. Annaspò disperatamente e i suoi occhi divennero vitrei mentre il compagno esitava, colto alla sprovvista. Il persecutore colse l'occasione al volo e, sfruttando la confusione, menò un fendente orizzontale con la spada all'altezza delle gambe. Le brache di lino non poterono nulla contro l'affilatezza della zweihänder, che lacerò i muscoli frontali facendo schizzare il sangue sul pavimento. Il Taurarchico emise un lancinante muggito di dolore prima di cadere accanto al compagno che ancora boccheggiava col dardo conficcato nel collo. Isaia lo fissò e inspirò profondamente, ignorando il dolore e la spossatezza che sentiva bruciare fin dentro le ossa. Doveva solo soffocare i tremori per pochi minuti ancora. L'uscita era solo a pochi passi da loro.
Oreb scoccò un altro dardo, trafiggendo in fronte il guerriero che suo fratello aveva appena messo a terra, poi scavalcò un tavolo rovesciato per raggiungere i due compagni.
«Isaia! Alzati!» esclamò, caricando un'altra freccia sulla balestra. Lanciò un'occhiataccia a Jawed, che ancora lo fissava inebetito, poi scoccò un dardo dietro di sé per colpire un Taurarchico che si era messo a correre verso di loro.
«Coraggio!»
Isaia balzò in piedi e puntò la spada verso Oreb. Una forza selvaggia e ingovernabile prese il controllo del suo braccio, tendendogli i muscoli vibranti di rabbia finché la lama non fu a pochi centimetri dal suo collo. Solo un filo di ragione dello spessore di un capello gl'impediva di sgozzare quel traditore lì e subito. Oreb sussultò appena, senza minimamente scomporsi alla vista di quel gesto. La sua fonte si corrugò in una lieve espressione di stupore ed egli abbassò la balestra.
«Sei furioso. Lo capisco. Ma non abbiamo molto tempo» disse, fissando il fratello con il volto impassibile.
Isaia strinse le dita con più forza intorno all'elsa. L'ombra della dopamina che sarebbe scaturita dal sangue lo abbagliava, impedendogli di concentrarsi sulle sue parole. Voleva tremendamente ucciderlo. I suoi tendini si stirarono come corde di violino e le sue braccia fremettero sotto l'immenso sforzo che la mente stava facendo per non abbandonare il corpo alla furia. Quei combattimenti forzati non avevano fatto altro che riportare in vita istinti primordiali che Isaia aveva dimenticato da anni. La sete di sangue dei miti antichi, la gloria della vendetta come coronazione del piacere... la frustrazione che il persecutore aveva accumulato negli anni stava per esplodere in un impeto di ferocia che avrebbe sgretolato le montagne. Ma Oreb restò immobile e lo fissò negli occhi senza alcuna maschera. Non c'era più alcun cinismo nelle sue pupille nerissime.
«Il bambino ti aspetta su una delle barche» disse, sfiorando il filo della spada con il pomo d'adamo «non abbiamo molto tempo. Gli arcieri potrebbero colpirvi anche al largo se non vi sbrigate»
Il persecutore sobbalzò all'udire quella frase. Timoteo era ancora vivo? Si era quasi scordato del bambino durante il combattimento nell'arena e la fuga precipitosa. Ogni preoccupazione verso di lui era stata così schiacciata dall'odio verso il tradimento di Oreb che gli aveva rivolto solamente un breve pensiero mentre si preparava ad affrontare i gladiatori. Improvvisamente Isaia si sentì scombussolato. Per un attimo gli era sembrato di trovarsi lì per compiere giustizia contro suo fratello. Tutto era passato in secondo piano all'ombra di quell'ira sconfinata, anche il motivo per il quale il persecutore aveva viaggiato fin lì. Ma Timoteo era vivo. Isaia osservò l'espressione di Oreb. La scrutò a fondo, esaminando ogni poro della pelle e ogni riflesso negli occhi che potesse indicare una minima bugia. Ma non era una menzogna: gli occhi del fratello non erano mai stati così sinceri. Jawed osservò i due uomini fronteggiarsi pietrificato dalla paura. Il braccio del persecutore vibrava come una molla in procinto di scattare e il cacciatore sosteneva lo sguardo con un volto che non sembrava essere il suo, distaccato da tutto ma colmo di fede. La battaglia infuriò con più ferocia che mai dietro di loro, man mano che i Taurarchiaci si riversavano nella sala, e i due fratelli continuarono a fissarsi per qualche secondo ancora.
Finalmente, Isaia abbassò la spada e inspirò a fondo. Estinto il fuoco dell'ira, il suo corpo sembrò avvizzire di colpo e la stanchezza gli crollò addosso come un macigno. Ma il pensiero di Timoteo che lo aspettava a poche centinaia di passi riuscì a mantenerlo lucido. Oreb non sogghignò, né sorrise, quando il fratello gli tolse la lama dal collo. Si limitò ad abbassare il capo in un lieve cenno di rispetto, poi scoccò un altro dardo dietro di sé e scattò in avanti verso l'uscita della sala.
«Coraggio!» esclamò, ricaricando l'arma.
Isaia si voltò. I Discepoli di Viburnia erano stati massacrati dai Taurarchiaci uno dopo l'altro. I pochi sopravvissuti rimasti graffiavano con le unghie nel tentativo disperato di difendersi, ma tutto era inutile. Gli invasori avevano quasi conquistato la sala del banchetto e presto li avrebbero raggiunti. Un'ultima guarnigione di Discepoli sbucò da una porta laterale sgolandosi in assordanti grida di battaglia e attaccò i Taurarchiaci dal lato. Erano le ultime guardie rimaste e avrebbero permesso loro di guadagnare solo un altro po' di tempo.
Mentre spade e asce cozzavano per l'ultima volta, Oreb, Isaia e Jawed si precipitarono ansimando fuori dal salone. Il suolo era scivoloso ma l'adrenalina galoppava con troppa forza per rallentare. I tre uomini raggiunsero l'atrio correndo a perdifiato e i rumori del combattimento si affievolirono non appena uscirono all'aperto. Isaia strinse i denti quando una fitta lancinante al braccio lo flagellò di brividi in tutto il corpo. Non avrebbe resistito ancora per molto. Macchie rosse gli annebbiavano la vista e la luce del sole sorgente gli bruciò gli occhi come calce viva. Ormai non era nemmeno più sicuro se stava ancora reggendo la spada, tanto le braccia erano stravolte dalla spossatezza. Perché non aveva ucciso Oreb? Lui, così bramoso del rispetto di tutti e mai titubante nel credere alla violenza. La mistica natura della giustizia divina era diventata il suo credo dopo tanti anni di meditazione, eppure la freddezza di cui andava fiero era completamente svanita per un attimo di fronte a tutto quell'odio. Oreb aveva oltrepassato ogni limite con quel tradimento, ma Isaia non era riuscito a compiere il gesto definitivo. Una parte di lui gli diceva che era riuscito a trattenersi, ma la sua coscienza gli diceva ben altro. Una paura improvvisa assalì Isaia scombinandogli ancor di più i pensieri mentre correva giù per la scalinata di pietra. Magari un tempo egli sarebbe riuscito a giustiziare Oreb, fedelissimo ai sacri principi del guidrigildo. Ma stavolta non ne era stato capace. Che gli stava succedendo?
I tre uomini continuarono a scendere le scale con ampie falcate, sfrecciando verso il molo il più velocemente possibile. Intorno a loro la scarpata era ricoperta dei cadaveri di Discepoli di Viburnia. Isaia inclinò la testa e aguzzò lo sguardo. Erano stati uccisi con dardi di balestra.
Il sole era ormai completamente sorto quando i tre uomini arrivarono al molo. Jawed si guardò intorno per controllare che nessun altro stesse venendo a cercarli e Isaia si appoggiò al muretto di pietra per non collassare. Oreb si diresse con decisione verso la barca rimasta ormeggiata con una sola corda e guardò verso il basso.
«Siamo noi» disse con voce sfiancata «ce l'abbiamo fatta»
Isaia vide qualcosa divincolarsi sotto il telone bianco che copriva la barca, poi una testa sbucò timidamente dalle pieghe del tessuto. Il persecutore usò le ultime energie che gli erano rimaste per metterla a fuoco. Sì, era quella di Timoteo. Oreb non aveva mentito.
Timoteo sgranò gli occhi quando vide Jawed e Isaia in piedi sul pontile. Erano coperti di sangue e sudore e il cartografo aveva una faccia sconvolta, come se avesse visto il diavolo in carne e ossa. I suoi occhi s'illuminarono ed egli aprì la bocca per esultare, ma la gioia gli si strozzò in gola. Nonostante il successo, sembravano aver passato un inferno nella fortezza. Il persecutore riusciva a malapena a reggere la spada e Jawed sembrava un cadavere ambulante. Tutti e tre erano troppo scossi per celebrare la fuga in quel momento.
«Coraggio, salite a bordo. Saranno qui molto presto» Oreb scostò Isaia dal muretto e lo aiutò a salire sulla barca. Timoteo si fece silenziosamente da parte, il volto più disteso di prima ma comunque preoccupato per le condizioni del persecutore. Jawed salì da solo con le gambe che gli tremavano e tirò un lungo sospiro di sollievo una volta salito sull'imbarcazione. Quando i due compagni furono saliti sulla barca, quindi, Oreb si chinò verso il basso e fissò Isaia negli occhi stremati.
«Fratello» disse «mi dispiace per tutto questo. Mi dispiace che il destino ci abbia fatti incontrare proprio oggi. Sembra quasi che l'Onnipotente mi odi da quanta merda mi getta addosso. Sei il combattente più forte che io abbia mai visto, nessuno sarebbe sopravvissuto a sei dei migliori gladiatori di Rocca Scarlatta. Non ti credevo così tenace e meriti più di quel che ti è stato riservato in futuro»
Timoteo spalancò gli occhi quando udì quelle parole. Gladiatori? Di che stavano parlando? Si accostò ancor di più al persecutore, che ora giaceva appoggiato al parapetto, e osservò il sangue di cui era macchiata la corazza con espressione confusa.
«Mi dispiace davvero» continuò Oreb, senza staccare gli occhi dall'elmo del fratello «non cerco il tuo perdono. Quello che ho fatto l'ho scelto io. E quel che succederà in futuro non lo so, ma sarà meglio che tu finisca il tuo viaggio e porti a termine la missione che ti sei imposto. Mi stai ascoltando, Isaia?»
Il persecutore annuì debolmente con la testa. Oreb sospirò e sfilò un coltello dalla cintura.
«Ti auguro una vita migliore della mia» disse, chinandosi per tagliare l'ultima cima «e semmai dovessi tornare a casa, di' a Rebecca di non fare stupidaggini e di fermarti la prossima volta. Oppure non dirle niente, dipende da quanto ancora mi odierai. Non sei cambiato poi così tanto. La tempesta sta per ricominciare più violenta di prima, adesso, e i Taurarchiaci staranno arrivando, quindi ti saluto»
Oreb si morse le labbra e scollò malvolentieri lo sguardo dagli occhi del fratello. Lanciò una rapida occhiata verso Rocca Scarlatta, evidentemente nervoso, dopodiché avvicinò il coltello alla corda e la tranciò con un colpo secco. Isaia mosse le braccia e le gambe nel tentativo di percepire il tocco del metallo, ma non sentì niente. Tutte quelle emozioni estreme gli avevano completamente drenato le forze. La barca sballottò addosso alle altre imbarcazioni, libera dagli ormeggi, e si allontanò dal molo abbandonata al moto delle onde.
«Coraggio, remate. Fuggite finché potete. Non riuscirò a trattenerli a lungo» disse Oreb «addio»
Timoteo spostò lo sguardò da Oreb a Isaia, turbato dalle parole del cacciatore. Parlava in modo solenne e distaccato, così diverso dall'esuberanza che aveva dimostrato sulla chiatta. Pensò che forse avrebbe dovuto ringraziarlo per ciò che aveva fatto, ma non c'era gratitudine negli occhi di Jawed e Isaia. Solo un'estrema spossatezza. Forse era meglio starsene zitti. Timoteo si limitò a guardare Oreb per un'ultima volta con un'espressione al contempo confusa e riconoscente, ed egli ricambiò lo sguardo con una distinta amarezza che traspariva dai lineamenti.
I tre compagni sulla barca ansimarono per un po', inspirando l'aria salmastra per purificarsi i polmoni dall'odore di vomito e sangue. Dopo qualche istante, quindi, Jawed si alzò indolenzito e allungò il braccio verso i remi d'osso che giacevano sotto il telone. Alzò gli occhi al cielo. Il cacciatore aveva ragione: le nubi stavano tornando ad addensarsi sopra di loro. Presto avrebbe ricominciato a piovere. Il cartografo sbuffò per farsi coraggio, ancora sconvolto dall'esperienza. Poggiò goffamente i remi sugli scalmi e iniziò a remare verso il largo. Timoteo emise un sospiro di sollievo. Finalmente erano al sicuro. Continuò a osservare Oreb che camminava strascicando i piedi verso la scalinata e notò che il cacciatore non staccava gli occhi dalla barca. Presto i tre compagni furono abbastanza distanti da non riuscire a distinguere la sua faccia. Ormai lontano, Timoteo lo vide salire i gradini un'ultima volta, poi si voltò verso Isaia. Era terribilmente ansioso di sapere cos'era accaduto all'interno della fortezza. Ma il persecutore non sembrava in condizione di rispondere. Respirava pesantemente e i suoi occhi erano spalancati, come se faticasse a restare sveglio. Reggeva ancora lo spadone sporco di sangue e continuava a fissare il vuoto di fronte a sé senza curarsi di niente. Anche Jawed non sembrava aver voglia di parlare, intento a remare con uno strano smarrimento negli occhi. Il suo viso era improvvisamente pallido e scavato, molto diverso dall'espressione saccente che aveva di solito. Timoteo tornò a guardare l'isola farsi più piccola e la fortezza di rame splendere sotto i raggi dell'alba, pensieroso.

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Venezia Penitente
General FictionNon c'è umiltà senza superbia. Non c'è generosità senza avarizia. Non c'è martirio senza persecuzione La seconda venuta del Messia è finalmente giunta. Cristo è sceso in terra per una seconda volta, compiendo miracoli per preparare le genti del mond...