𝐂𝐀𝐏. 2 - Dicono che ho i tuoi occhi

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Quando Mia mise piede nella propria stanza il sorriso che le aveva solcato il viso fino a quel momento fu sostituito da un'espressione assente. L'invidia dei suoi compagni era la benzina che alimentava le sue mess'in scene; tuttavia, non sapeva nemmeno lei perché si ostinasse a fare la bella faccia davanti a Roger. Forse perché temeva che, se avesse lasciato intendere i suoi veri sentimenti il vicedirettore avrebbe troncato lo scambio epistolare, essendo già una sorta di strappo alla regola della Wammy's House.
Ma non aveva senso; lei per prima era uno strappo alla regola, anzi, uno squarcio vero e proprio. Sospirando si buttò sul letto a peso morto dove prese a scartare la busta, attenta a non romperne il contenuto. Ne estrasse un pezzo di carta altrettanto candido, sul quale risaltava nero su bianco una calligrafia disordinata, quasi frettolosa, ma che sapeva di familiarità.
Con gli occhi affamati si mise pancia in su e iniziò a leggere, saggiando ogni parola lentamente con un'attenzione quasi maniacale.

"Cara Myléne,
come stai? Qui le giornate sono monotone, ma paradossalmente piene di cose da fare. Ho trovato il tempo di scriverti prima, ma farò in modo di scriverti di nuovo a fine mese. Ho poco da raccontarti anche questa volta. L'unico aneddoto che mi viene in mente al momento riguarda quell'inserviente di cui ti parlai in una lettera precedente - ti ricordi? Si è addormentato di nuovo con gli occhi aperti! Mi chiedo come faccia. Dorme davvero nella grossa e pensa che questa volta ha anche iniziato a parlare nel sonno nella sua lingua madre - sembrava greco, non ne sono sicuro. È stata una scena epica, avrei tanto voluto riprendere il tutto e allegartelo però, come sai, è impossibile.
Mi auguro che all'orfanotrofio vada tutto bene.
Stai mangiando come si deve? Quanto sono lunghi i tuoi capelli adesso? Oppure li hai tagliati? Ti confesso che detesto non poter ricevere risposte, né fotografie: non poter assistere alla tua crescita è molto doloroso, ma per questo rimprovero solo e soltanto me stesso. Immagino di meritarmelo dunque. Spero solo che non mi verrà un colpo quando, una volta uscito di qui, davanti a me ci sarà una bellissima giovane e non più una bambina. Probabilmente adesso starai pensando che prima o poi dovrò comunque farci i conti. Sai, anche il mio compagno di cella ha una figlia. Ieri abbiamo parlato di voi fino a tarda notte, tant'è che abbiamo ricevuto varie lamentele da parte degli altri detenuti - non mi pento di nulla!
Come sempre parlare di te mi ha messo addosso il buon umore; quindi, la prima cosa che ho fatto stamane è stata impugnare la penna e scriverti. Farlo mi aiuta sempre tanto a superare anche le giornate difficili, quelle in cui la mancanza delle donne più importanti della mia vita si fa sentire forte e impetuosa.
Ma sto divagando.
Quello che volevo dire è che anche tra dieci anni resterai sempre la mia bambina. Spero che tu possa perdonare il capriccio di questo vecchio sciagurato che altro non vuole se non riaverti presto tra le braccia.
Con tanto amore,

papà.

P.S.
- 63!"

Solo giunta a fine paragrafo Mia si lasciò andare a un sospiro tremante che sapeva di lacrime trattenute.
Rimase immobile per qualche minuto, gli occhi chiusi.
Myléne.
Da quando aveva messo piede in orfanotrofio nessuno aveva mai pronunciato il suo vero nome, nemmeno lei. Nessuno lo conosceva infondo, come Mia non conosceva quelli dei suoi compagni, che tuttavia chiamava amici. A volte, quando era sola, lo ripeteva a bassa voce come se avesse avuto paura di dimenticarselo.
Myléne. Myléne. Myléne.
Immaginava che fosse suo padre a chiamarla, ma più il tempo passava più era difficile ricordarne perfino il viso.
Si era domandata più volte come fosse umanamente possibile vivere con una voragine tanto bestiale nel petto, colmata occasionalmente da due sentimenti contrastanti. Lì alla Wammy's House avrebbe dovuto sentirsi parte di qualcosa, qualcosa di enorme e triste, parte dello spietato dolore della solitudine. Ma la verità era ben diversa, come la solitudine che condividevano. Lì dentro ognuno viveva per raggiungere uno scopo, dal quale, peraltro, lei era lontana e indifferente. Non vi era tempo di piangere i cari, né, chi ne aveva la possibilità, di ricordarli. E lei, oltretutto, non era nemmeno sicura di averne il diritto.
Facendo leva sulle braccia Mia si alzò dal letto raggiungendo a piccoli passi la scrivania, poi, dopo aver stirato per bene la lettera contro la superficie, si sedette prendendo carta e penna da dentro un cassetto. Con la lettera da una parte e il foglio dall'altra, iniziò a ricopiare parola per parola il contenuto della stessa e intanto immaginò suo padre scrivere come stava facendo lei adesso, seduto dietro uno scrittorio rovinato all'interno di una cella fredda come quelle che vedeva nei film. La sua mano proseguiva spedita quasi in autonomia mentre la sua testa vagava. Mancavano esattamente sessantatré giorni e suo padre sarebbe uscito di prigione. Sessantatré giorni e lei sarebbe stata fuori dall'istituto per riprendere con lui la vita che avevano lasciato a metà. Lei gli avrebbe buttato le braccia al collo e lui l'avrebbe stretta a lungo per recuperare tutti gli anni in cui non aveva potuto; poi l'avrebbe presa per le spalle con un "fatti guardare" e forse avrebbe detto che era tale e quale a sua madre, proprio come in una favola destinata a finire bene. O almeno era quello che lui si aspettava. Perché Mia non sapeva nemmeno se sarebbe riuscita a guardarlo negli occhi. Però intanto moriva dalla voglia di ricordare di che colore fossero.
Una volta finito di ricopiare la lettera piegò il nuovo manoscritto in tanti pezzi fino a che non ne uscì una pallina che infilò all'interno di una tazza che fungeva da portapenne. Piegò l'originale riponendola nella busta e con un sospiro e gli occhi bassi uscì dalla stanza diretta verso l'ufficio di Roger.

𝐑𝐞𝐪𝐮𝐢𝐞𝐦 || 𝑀𝑖𝒉𝑎𝑒𝑙 𝐾𝑒𝑒𝒉𝑙Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora