Capitolo 12

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«Riesci a raccontarmi cosa è successo il giorno del rapimento?» Chiede una collega di Tommaso della squadra RaCIS arrivata qui da Parma per aiutarlo col mio caso. Non vorrei parlarne ma spero che questo possa aiutare a chiudere il caso definitivamente.


«Quel giorno lui mi aveva mandato un messaggio per chiedermi di andare in ufficio e firmare delle carte.» Non riesco a pronunciare il suo nome, ma continuo. «Ero senz'auto ma un taxi fuori servizio era fermo vicino casa mia e sono salita comunicando la strada per l'ufficio. «Dopo poca strada ricordo che un rumore dal cofano ha attirato la mia attenzione e qualcuno è sbucato fuori mettendomi un tovagliolo coprendo naso e bocca e...» la mia voce adesso trema e cerco con gli occhi Tommaso nella stanza.


«Sono qui» mi sussurra poggiandomi una mano sulla spalla tranquillizzandomi. «Non ricordo altro... mi sono svegliata in quel casale abbandonato...» non voglio raccontare altro per oggi. Ho bisogno di stare con la mia famiglia, ho bisogno di vedere mio padre. Non lo hanno fatto avvicinare al posto in cui mi hanno trovata per evitare che commettesse qualche errore che non si sarebbe mai perdonato, e sono contenta che non mi abbia visto in quello stato.


Sento il freddo percorrermi l'incavo delle ossa, dritto fino al midollo. È un freddo pungente e umido come la terra che mi ha circondata in quei giorni. Mi sono guardata spesso intorno, cercando una speranza di salvezza a cui aggrapparmi ma nessun rumore era familiare. Le braccia legate strette dietro la sedia erano un continuo dolore ma cercavo di non pensarci. "Sono spacciata" è l'unica cosa che in realtà riuscivo a pensare, l'unica frase che riuscivo a comporre nella mia mente. Sorridevo delirante a volte, pensando a quanto breve e solitaria fosse stata la mia vita. Il tempo scorreva lento mentre fissavo quel tetto nero, sentivo il respiro farsi più lieve, ogni tanto sentivo un brontolio che si avvicinava; tra un lampo e l'altro capitava che io perdessi i sensi: le forze sembrava mi stessero abbandonando e non c'era nulla che io potessi fare, cercando di restare sveglia e di conservare quel poco che mi restava per urlare aiuto se ce ne fosse stata l'occasione. Tutto puzzava di chiuso, pareti lerce e ammuffite, come se da tempo nessuno fosse entrato lì. Il letto non era neanche un letto, ma un misero materasso bucherellato qua e là dalle tarme e con qualche molla uscita. Ho provato a parlare con Massimo, quando ho scoperto che era lui il mio rapitore, ma sembrava in uno stato di trans, mi portava acqua e cibo meccanicamente, non mi rivolgeva la parola, sembrava spaventato o che si vergognasse dalle sue azioni.


La collega di Tommaso mi ha poi tranquillizzata sul fatto che il medico legale non era coinvolto in niente di tutto questo, aveva un alibi di ferro per gli altri omicidi e soprattutto nelle ore del mio rapimento. Aveva soltanto cercato di introdursi nel mio ufficio quella mattina per trovare degli indizi e per cercarmi da solo senza l'aiuto dei carabinieri, nella speranza di ritrovarmi e sperando che quando mi avrebbe ritrovata mi sarei gettata tra le sue braccia in segno di gratitudine.


«È arrivato il maresciallo, lasciamoli soli» chiede Tommaso al gruppo con la sua solita gentilezza, interrompendo i flashback di quei tremendi ricordi. «Adele...» è lui. «Papà...»È bastato incrociare il nostro sguardo per sentirmi di nuovo a casa.


Nessuna parola ma un abbraccio, un lungo e caloroso abbraccio che nasconde le nostre lacrime e scaccia i cattivi pensieri. Mi circonda in modo molto protettivo e rassicurante per fare bene a me ma anche a sé stesso. Mi stringe a sé con affetto, un braccio si solleva fino a far arrivare la mano sulla sua testa, delicatamente. Mi dà un bacio lungo sui capelli, posandoci giusto le lab-bra, col capo chino. Mi guarda, poi. «La mia bambina...» mi sussurra con gli occhi colmi di lacrime. «Tutto questo è colpa mia, non avrei dovuto che scegliessi questo lavoro e che mi aiutassi nei casi...» singhiozza adesso che sta realizzando che avrebbe potuto perdermi, ma si sbaglia. «Non hai sbagliato nulla, papà, questo lavoro è la mia vita, la mia passione è tutto grazie a te e non per colpa tua.» Cerco di rassicurarlo mentre mi lascio abbracciare, col viso nascosto sul suo petto, restando così, immobile nei primi momenti, stringendomi nelle spalle, restando però circondata dalle braccia di mio padre, come fossero una gabbia di protezione in cui restare nascosta per sempre.

La figlia del MarescialloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora