6.9 (Epilogo)

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Affrontare un trasloco, quando è impossibile anche scorgere le proprie punte dei piedi, è un tipo di fastidio che non augurerei a nessuno. Per i successivi sei mesi dopo la notizia del nuovo appartamento, gettare cianfrusaglie alla rinfusa in uno scatolone, ostacolata da calcetti lungo il basso ventre, a braccetto con un incessante mal di schiena, è stata la mia quotidianità.

E nonostante i continui inviti di Christian a lasciar fare a lui, io ho continuato ad aprirgli per bene le scatole, a passargli i libri sulle mensole più basse e a ripulire dalla polvere dove già era stato sgomberato.

"Ti costa tanto sederti due minuti?" il ballerino, completamente stravaccato su quello che un tempo era stato il mio letto, sospira, sollevando il capo dal cuscino. 

Mi limito ad annuire, dirigendomi, frettolosa, verso la finestra per chiuderla. La brezza di Settembre che per un mese intero ha sfaldato l'insopportabile afa estiva, sta lasciando il proprio posto al vento freddo di Novembre, tanto velocemente da non darci nemmeno il tempo per rendercene conto.  

Abbiamo impiegato un'intera estate per trasferirci del tutto, complici delle nostre disavventure il caldo e le lunghe traversate su e giù per l'Italia, fino a Bergamo, in modo da avere a portata di mano ogni cosa potesse realmente esserci utile.

"Sì, perché mancano davvero solo le ultime cose, poi qui dentro non voglio più tornarci, prima facciamo, meglio è" ribatto decisa, afferrando una lunga striscia di scotch marrone ed attaccandola per bene sul cartone. 

L'inizio della mia vita in quell'appartamento era uno dei ricordi più dolci che conservavo.

L'esatto istante in cui avevo solcato l'uscio per la prima volta era stato un passo importante, quello che avrebbe segnato l'inizio di una parte nuova della mia vita, lasciando alle spalle un passato ancora pungente e doloroso.

Se fossi stata in grado di osservare la mia figura dall'esterno, con occhi non miei, in quel momento, avrei contratto il volto in un'espressione intenerita. 

Tutto quello che mi circondava era nuovo. I miei occhi setacciavano angolo dopo angolo in cerca di qualsiasi elemento familiare, invano.

Sospirai rumorosamente, prima di rimboccarmi le maniche ed iniziare a riempire la casa delle mie esperienze. 

Esperienze come tratti di pennarelli indelebili, lasciati con il compito di sporcarne i muri freschi.

La prima carbonara, colpevole di aver messo sottosopra un'intera cucina; la prima lavatrice di lenzuola bianche, con uno scaldamuscoli rosa tra le federe; la prima coreografia abbozzata in salotto, colei che ha fatto capitolare al suolo un vaso di vetro, appartenuto alla vecchia inquilina, distruggendolo in mille pezzi. 

Cose che, quando è toccato a me raccontarle, soffocare dei risolini divertiti era stato impossibile.

Tuttavia, qualcosa interposto tra gli ingranaggi, mandando in crisi tutto il meccanismo, si è presentato poco dopo.

Andrea anche in questo era riuscito a metter naso.

Aveva trasformato in fango ogni singolo attimo di tranquillità che, a fatica, ero riuscita a rimettere in piedi.

Ora non volevo averci nulla a che fare. Tutto ciò che poteva anche solo minimamente riportare alla mia mente l'influenza di Andrea, volevo ridurlo in cenere e gettarlo via. 

Il più lontano possibile. 

"Questo l'ho capito, ma sarai stanca. Dafne è una vera peste" sospira con un leggero sorriso sulle labbra, tirandosi a sedere e bloccando i miei movimenti fulminei con le sue braccia.

Dafne.

La nostra piccola Dafne.

Era un bambina gracilina, non più di un paio di chilogrammi. Il freddo gel azzurro, colpevole di irrimediabili brividi su tutto il mio grembo, oltre a rivelarci il genere del nostro esserino, aveva anche permesso a me e a Christian di passare un divertente pomeriggio insieme. 

Vivere tre viteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora