31 luglio

98 5 5
                                    

Erano tre giorni che Shirai non si faceva vedere, forse mi ero resa conto da sola che dovevo mettere a posto prima la testa e poi il cuore. Prendevo le medicine molto più volentieri, smettevo di aspettarlo anche se in una remota parte nell'anticamera del mio cervello desiderava essere insieme a lui.

Il motivo per cui lo cercavo nonostante la rabbia che provavo verso di lui era a me sconosciuto, forse non avevo ancora metabolizzato il fatto che era frutto della mia fantasia.

Però come poteva essere convinta di quello che mi diceva il dottore se nelle dita percepivo il contatto reale della rosa che mi aveva regalato?

Perché io quella rosa ce l'avevo in mano, accarezzavo i petali fragili in cui non scorreva linfa vitale, era congelata nel tempo, un po' come me in quel momento.

Un po' come Shirai quando mi accorsi che era seduto di fianco a me sul davanzale della finestra.

Non lo guardai e lui non mi guardò, restammo vicini fisicamente e lontani nelle nostre menti seppur sapevo che la mia voglia di prenderlo a pugni e allo stesso tempo abbracciarlo mi stava facendo bruciare gli occhi.

Guardavo la rosa che si scioglieva nelle mie dita lenta come le lacrime che minacciavano di uscire dai miei occhi e i suoi petali secchi e rigidi sembravano stessero tagliando le mie dita durante il tracciato sulla pelle di quel povero fiore morto.

In poco tempo, senza alzare lo sguardo da quella rosa, la gola mi si chiuse e divenne difficile respirare, mi doleva talmente tanto il petto che cominciai a tremare dalla rabbia.

E ancora, non sapevo cosa feci a dio per meritarmelo, ma mai avrei desiderato di morire più che in quel momento, ero semplicemente stanca di rincorrermi e capire che stavo andando a sbattere contro uno specchio.

Come atto di ribellione verso la mia vita penosa, presi il fiore nel mio pugno e lo strinsi con forza fino a conficcare le unghie nel mio palmo, poi lo rilasciai lentamente e le ceneri scivolarono via, cadevano aggraziate verso il basso; forse era un presagio del luogo in cui la mia anima sarebbe finita, verso il basso, dritta all'inferno. Mi sarebbe aspettato dolore per l'eternità.

Con un movimento del polso lanciai il gambo che atterrò sul suolo, e allora guardai il campo da Basket di fronte a me.

«Cos'aspettavi a dirmi che non esisti?». Il dolore nella mia voce si poteva sentire da chilometri di distanza, non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi che mi avevano fatto pensare di aver trovato una gioia nella mia vita triste.

«Io esisto». Cazzo, non poteva dire sul serio.

Neanche quando a riempire il silenzio era la mia risata isterica che era nata dalla disperazione mi guardò; e io ridevo ancora di più perché avrei potuto far caso alle cose molto prima.

Però sembrava così reale lui.

«Esisti solo nella mia immaginazione», «E questo chi te l'ha detto?» Cominciavo a percepire quella sensazione alla bocca dello stomaco che mi mandava chiari segnali di essere capitata nella tipica situazione in cui ti rendi conto di aver trascorso gli ultimi diciotto anni della tua vita sotto un'enorme, elegante e raffinata presa per il culo, perché l'ennesima certezza l'ho avuta dopo aver sentito quella domanda e averla digerita come scherzo.

«I dottori», avevo risposto, e mi resi anche conto di essere anni luce indietro alle persone con cui avevo a che fare perché cercavo di sostenere il vero tramite una partita che giocavo a carte scoperte e di cui neanche io sapevo il seme. In parole più semplici, le risposte che mi dava Shirai erano molto più sensate delle domande che gli ponevo.

Mi disse: «Gli stessi dottori che ti avevano dato un mese di vita?» ed io a quel punto cominciavo a domandarmi cosa fosse reale e cosa no, se stessi uscendo di testa a causa delle medicine o se la mia schizofrenia si era manifestata in quel momento. Pensai che erano forse entrambe le cose messe insieme e che la pazzia non c'entra un bel niente quando le carte che hai giocato per tutta la tua vita sono sempre state basse.

«E tu come fai a saperlo?». Ma in una partita, ovviamente, non esistono solo carte che ti fanno perdere, perché io avevo appena pescato un jolly.

Shirai sorrise con aria rassegnata che io non capì, quel ragazzo tentava di dirmi così tante cose ma parlava poco, ero sempre io a fargli domande e ad ottenere di fortuna qualche risposta che non mi sarebbe stata utile. Ma quella volta sapevo che si era fregato da solo, si era incartato e io avevo la possibilità di rimontare e vincere quella cazzo di partita in cui avevo scommesso letteralmente la mia vita.

«Io ero lì». Vedevo la vittoria farsi vicina e lontana in un brevissimo tempo. «Quando?», gli chiesi; lui mi rispose dopo avermi guardata negli occhi qualche secondo, dopo aver controllato quel maledetto orologio. «Alla partita, quel giorno», vedevo anche la mia sanità mentale farsi molto, molto lontana; perché per credere ad una cosa del genere un briciolo di follia nella testa lo devi avere.

La mia ne era piena.

E cominciai persino a pensare che fosse uno stalker e che la teoria che voleva uccidermi non era del tutto errata, che l'avrebbe fatto da un momento all'altro dopo avermi violentata. Ma forse il pazzo era lui, mi diceva che era proprio sotto il canestro nel momento in cui avrei dovuto lanciare. Ma io la sua faccia non me la ricordavo, e non avrebbe potuto stare sotto il canestro perché l'avrebbero buttato fuori dal campo.

Io ci giocavo la vita, ma non sapevo a che gioco stesse giocando lui.

Forse lesse qualcosa nei miei occhi che gli fece capire di essere più chiaro, forse si era accorto anche lui che quello che diceva non aveva senso. Dovevo credere almeno ad una cosa fra il fatto che fosse un pazzo omicida e che lui esistesse veramente, quindi perché non credergli quando ormai non avevo più nulla da perdere?

Comunque, dopo che me lo disse, cominciai a credere che quella pazza fossi proprio io.

«Io sono la morte».

•.*𝐿'𝒶𝓈𝓈𝒶𝓈𝓈𝒾𝓃𝑜 𝒹𝒾 𝓁𝓊𝑔𝓁𝒾𝑜*.• [Dabi x oc]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora