Quattordici.

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CAPITOLO QUATTORDICI
Brother's bond

Alice.

Dopo una doccia veloce, torno in salotto dove trovo Dalila che saluta il figlio, raccomandandosi di comportarsi bene e di darmi retta. Lui annuisce contento e, dopo aver ricevuto un tenero bacio sulla fronte, torna a giocare con le macchinine.

Lei mi ringrazia per l'ennesima volta poi esce di casa augurandoci una buona serata. Mi siedo a gambe incrociate sul divano e sblocco il telefono. Avrei voglia di scrivere a Louis, in questi due giorni non ci siamo visti nemmeno a scuola.

Rialzo lo sguardo e trovo piazzato davanti a me il marmocchio dai capelli castano scuro che mi sorride furbescamente. Mi inquieta quell'espressione, sembra proprio quella di un bambino che è pronto a fare un disastro.

«Giochi con me?» Sono quasi tentata di dirgli di no, però il suo faccino è così tenero e poi mi ricordo di essermi cacciata io in questa situazione.

«Dipende a cosa.» Se fosse un gioco in cui posso sare comodamente seduta sarebbe fantastico. Lui però tira fuori da dietro la schiena due pistole Nerf e me ne porge una. Cazzo.

Sospiro e la prendo, accettando quindi questa attività che richiede tutto tranne stare fermi, seduti e calmi, che palle.

«Sei sicuro che ai tuoi vada bene che giochi con questi affari in casa?» domando scettica, sperando per qualche secondo che lui ci ripensi e li metta via.

«Certo, ci giochiamo io e papà qualche volta.»

Carichiamo le nostre pistole, ci mettiamo agli opposti del piano di sotto e lui urla per far partire il gioco. Passiamo davvero molto tempo a correrci dietro e a spararci con quelle due armi infernali. Ammetto di aver un po' imbrogliato, stando ferma e lasciando che lui mi trovasse per dovergli correre dietro il meno possibile. All'epilogo della nostra partita, dalla quale sono uscita stranamente vincitrice, lui decide che è il momento di vendicarsi e quindi inizia a spararmi tutto il caricatore pieno addosso, senza ammettere repliche.

Se lo prendo lo uccido, questa è l'unica cosa a cui riesco a pensare mentre gli ordino di smetterla, venendo bellamente ignorata.

«Adesso Nathan o la pianti o giuro che ti distruggo quell'affare.» lo minaccio con tono duro. Evidentemente la minaccia ha funzionato perché subito abbassa la pistola e si rabbuia. Oh, no, il solito bambino a cui non hanno insegnato a perdere.

Lo osservo per un po' sperando che mi stia facendo uno scherzo e che non se la sia presa davvero, non vorrei ritrovarmi a litigare con Dalila perché per sbaglio ho offeso il suo figlioletto ipersensibile.

«Perché ci odi?» Sbianco. La domanda mi ha preso in contropiede; allora non è offeso per aver perso o perché l'ho minacciato.

«Odiare.. chi?» balbetto senza sapere bene che risposta dare al nanerottolo davanti a me.

«Papà.» esclama puntando il suo sguardo triste su di me. «E me e la mamma.»

Perché li odio? Dopo una settimana qui la domanda forse dovrebbe essere più un "li odio?". Sono furiosa con papà perché mi ha abbandonata e si è ricordato di avere una figlia solo dopo molti anni, sono arrabbiata perché ha deciso di punto in bianco di portarmi via dagli Stati Uniti senza nemmeno conoscermi. Ma lo odio per tutto questo? Odiare è una parola molto profonda, non si può usare con tanta leggerezza, l'odio è un sentimento che ti logora in ogni singolo momento della vita, non ti lascia respirare un attimo e ne senti il peso costante.

Forse prima di conoscerlo, lo odiavo. Ci sono stati momenti in cui preferivo far finta di essere orfana di padre piuttosto che affrontare la consapevolezza di non essere stata abbastanza per lui. Tutto questo però, prima di conoscerlo, prima di vedere nei suoi occhi lo stupore al nostro "primo" incontro, prima di scoprire le foto o di sperimentare quanta pazienza è disposto a portare pur di avermi attorno.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 20, 2022 ⏰

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Alla luce del sole. ~ H.S. (In pausa)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora