Francesca ha preso l'abitudine di passare sull'isola, ogni tanto, del tempo in solitudine.
In genere il traghetto lo prendono tutti insieme, fanno i grandi preparativi, si agitano, fanno il conto alla rovescia.
Quest'anno invece, ha iniziato ad andarci anche da sola, pure d'autunno, in primavera, in inverno. Prende due giorni di ferie e ad Emiliano dice: «Domani parto, torno lunedì».All'inizio Emiliano è rimasto un po' stranito, quasi leggermente insospettito ed ha anche cercato di farla ragionare, di farle spiegare, almeno, qual era il reale motivo di questo grande improvviso bisogno di evasione. Poi, mano a mano, quando la cosa è diventata normalità, ha lasciato perdere e l'ha accettata, come sua tendenza ad abituarsi ai dolori, perché sa che anche questa è una delle inoppugnabili prove che l'uomo è in grado di adattarsi a tutto, è duttile, è come l'acqua. E poi anche perché a Francesca lo deve, lo deve e basta.
È una settimana che Francesca è sull'isola.
Le piace svegliarsi, avere il tempo di scegliere i vestiti con calma e quindi, con una camicetta leggera, una gonna lunga color crema, dei sandali marroni in pelle, scendere lentamente verso il paese; più di tutto gode del rumore delle suole sulle pietre della strada, e di quello delle onde, mormorio placido di sottofondo, che insieme al verso dei gabbiani, a quello delle bestie della natura che si svegliano, pare sussurrare: «Qua siamo ancora noi i padroni».
E poi l'odore dei pini, la resina che si sprigiona dalle pigne cadute, l'aria smossa carica di sale, aspra ma allo stesso tempo lieve, i colori sbiaditi della sabbia e delle rocce, che si alternano e si mischiano al bianco della schiuma, al blu dell'acqua, e a quei microscopici granelli confusi che sono gli uomini, e le loro barche, e i loro ombrelli.Anche stamattina si è alzata presto e ha preso il sentiero che le permette di vedere la carcere arroccata sul promontorio. Adesso fissa le mura grigie, il filo spinato, le piccole finestre e si accende una sigaretta. Fa una lunga boccata, butta fuori il fumo e rallenta leggermente il passo per guardare il golfo bagnato dalle prime ore del sole. «C'è chi sta dentro e c'è chi sta fuori», pensa, «Io faccio parte di quelli che stanno fuori».
Poi fissa nuovamente la carcere, in lontananza: chissà se qualcuno è in cortile a fumarsi una sigaretta come lei.
«Eppure», continua a pensare, «certi giorni è come se fossi dentro».
Guarda un'ultima volta, con aria seria, le mura scrostate e poi si rimette a camminare, senza più voltarsi.Qua, sull'isola, si piace, perché sa di aver lasciato a casa, in città, l'altra Francesca, la Francesca con cui si sveglia tutti i giorni, che le opprime l'esistenza, che la tartassa con una serie di costrizioni atte solo a farla stare al suo posto; una Francesca che le impone di voler bene ai suoi figli, di occuparsi di loro, di occuparsi della casa, di andare a lavoro, di portare fuori Akù, di telefonare a sua madre.
La ragnatela della quotidianità è fra tutte la più insidiosa: gli yes-man, i conformisti, i piccolo-borghesi dicono di essere affezionati ad una tranquillità che di base non esiste, e questo perchè probabilmente non sono consapevoli di essere in realtà dei grandi avventurieri. Perché se c'è una cosa che Francesca ha capito, è che la vita di tutti i giorni è quello che di più complesso c'è al mondo.
Da giovane se qualcuno le avesse chiesto cosa avesse voluto veramente, avrebbe risposto: «Una vita normale».
Adesso non sa nemmeno cosa significa, perché forse non esistono le vite normali, e non la spaventa più né la noia, né la possibilità di essere o di diventare una persona vuota e scialba, né quella di pentirsi di non essersi realizzata a pieno.
Adesso le è rimasta solo la paura di invecchiare e morire, di veder decomporre il suo corpo, di diventare come gli anziani che ha visto nei vari reparti dove ha lavorato, con le gambe edematose, i genitali sfatti, i ventri che cedono alla gravità: un frammento di ciò che un tempo era vitale, di corpi che forse erano stati attraenti e desiderati e penetrati da altri corpi a sua volta appetibili, ma che adesso scatenano solo repulsione e un vago senso di nostalgia. E le sembra che i suoi figli, e i centimetri che ogni mese guadagnano, e la loro pelle liscia e tirata, e la loro voglia di sbagliare, di soffrire, di incaponirsi, glielo ricordino ogni giorno di più che l'orologio del tempo scorre; che loro vanno verso i momenti più belli della loro vita, verso lo stupore per ogni cosa, verso sogni ancora in costruzione, e lei ci si allontana, e non potrà mai più riafferrare niente di quello che è stata, delle possibilità che le sono state date, perché ormai se le è giocate così come sono andate, e può esserne felice, può esserne triste, ma non può più farci niente. Le sembra che ogni sua azione, ogni mansione giornaliera, sappia di stantio, di sorpassato: non riesce a star più dietro al nuovo che avanza, ai diversi modi che hanno adesso i giovani per divertirsi, non li comprende, si sente esclusa, fuori dai giochi. E mentre si guarda allo specchio prova solo disgusto, e immagina che anche Emiliano, nel guardarla, debba provare le stesse cose, e allora, solo in quei momenti, solo quando ai suoi occhi vengono restituite le curve, il colore pallido della pelle, le occhiaie scure che vedono tutti, tutti quelli che la incontrano per strada, per i corridoi, dentro al letto, solo allora lo capisce, e le vengono in mente le frasi di una canzone che ascolta sua figlia:
Si maman est chiante c'est qu'elle a peur d'être mamie
Si papa trompe maman c'est parce que maman vieillit.
E le verrebbe da prenderlo a pugni lo specchio, da romperlo in mille pezzi, e da chiedere alle schegge di vetro, una ad una, come ha fatto ad arrivare fin lì. Ma non lo saprebbero, si sa, sono solo cristallo inanimato; d'altronde nemmeno loro due, che sono carne, si sanno dare una risposta.
Per questo a volte non vuole avere i suoi figli attorno, perché vuol credere che sia possibile essere una Francesca diversa, una Francesca alla quale viene dato modo di ripartire da capo, una Francesca che vorrebbe trascinare anche Emiliano con sé, se solo non fosse così arrendevole di fronte alle cose brutte, e tornare a quando dei propri corpi non dovevano vergognarsi, e potevano starsene sulla spiaggia fino a notte fonda, e fare il bagno nudi, e scopare con violenza e non curanza in ogni stanza della casa, senza aver paura di veder affacciarsi due testoline piccole, due paia di occhietti curiosi che non vogliono mai perderli di vista, che quando è buio li chiamano: «Mamma! Papà!», e quando è giorno fuggono le loro mani grosse per correre verso un ferro rugginoso, un filo spinato, un modo qualsiasi per farsi del male, perché è così che si scopre il mondo.
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Famiglia tradizionale
General FictionCome ogni estate, la famiglia Russo è pronta a partire per le vacanze. Ha già prenotato i biglietti per la traversata, ha già saldato il conto con la solita agenzia, ha già preparato le valigie che giacciono, da diverse settimane, ai piedi del letto...