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Emiliano in salotto ha una libreria che occupa tutta la parete.
Sta in piedi, stretto nella sua camicia bianca, davanti alle mensole in legno chiaro e osserva distrattamente le centinaia di volumi che -suppone, ma non ne è sicuro-, hanno comprato lui e sua moglie anni e anni addietro.

«La mia compagna», si corregge spostando il peso da un piede all'altro, «non mia moglie».

Lui e Francesca –ogni tanto è costretto a ricordarselo-, non sono sposati. Non c'è un motivo preciso, o meglio, non c'è ufficialmente. Agli amici raccontano che è "andata così". A loro stessi non raccontano nulla, ma entrambi hanno qualche idea: il senso di costrizione, l'egoismo del quale non sono riusciti a liberarsi, la paura di diventare un luogo dal quale voler scappare; e infine –ma questo lo pensa solo Emiliano-, nel contesto di una serie di rappresaglie personali, la volontà di mantenere una certa posizione politica e di contrastare determinate tradizioni familiari. Che poi -ne è convinto- sono gli stessi motivi per cui ci si sposa.

Sospira pigramente e si toglie gli occhiali da vista per pulirseli.
Che accozzaglia di esistenze strane è la loro casa, sembra un essere vivo; ogni tanto le spunta una gamba o un braccio in più, schiude un occhio, spalanca la bocca per sbadigliare. È una casa che ha nostalgia di tempi mai vissuti e luoghi mai visitati. È uno scontro di epoche e di culture: pretenderebbe di far respirare Europa e Oriente simultaneamente, di ricordare la fine degli anni settanta ma anche di stare al passo con la tecnologia; e allora ecco che c'è il televisore al plasma, perchè Greta e Gabriele possano guardarci Black Mirror su Netflix, accanto al giradischi d'epoca.

In realtà è solo polvere e utensili comprati una volta e mai utilizzati, lasciati a marcire sui davanzali, sui ripiani della cucina; è una lavagnetta nera su cui c'è un elenco di numeri mai cancellati, un calendario con scritti i turni di lavoro e i giorni di rientro a scuola, una pianta di peperoncini rossi che riusciranno a far seccare, una fodera del divano bucata dalla cenere delle loro sigarette e coperta dai peli di Akù, un pianoforte che nessuno suona mai, delle chitarre scordate e poggiate per terra, un ripiano pieno di cd accanto al caminetto, dei vecchi liquori nel mobiletto del soggiorno, dei nuovi liquori in frigo e delle bottiglie vuote nascoste sotto al letto, o nei cassetti delle mutande.
È una casa che li riflette, riflette quanto siano, tutti quanti, estremamente complicati e discordanti, scomposti, senza una logica che possa poter far dire: «Ah, ecco, ho capito com'è fatto Emiliano». Spunta sempre fuori qualcosa che non avresti mai considerato, che sconvolge il quadro, che si contrappone e che non rende possibile sentirsi al sicuro quando li si guarda. Ci si sente, anzi, stretti in una morsa di incoerenza, di contraddizioni, che tradiscono l'idea che ci si era fatti, e anche quella che ci si farà.

Però, in fondo, sono persone per bene. È quello che viene da pensare quando ci si riferisce ai Russo. Proprio delle gran belle persone. Non chiare, non facilmente delineabili, un po' volatili, dai contorni incerti, ma brava gente.

Adesso Emiliano si scaraventa sulla poltrona, inarca la schiena, si massaggia il collo e dà uno sguardo all'orologio: ancora sono in orario, ma i figli vanno sollecitati con un certo anticipo.

«Greta, Gabriele», urla fiaccamente, senza aspettarsi nessuna risposta in particolare.
«Gabriè», ripete. Sa che con lui deve insistere: è distratto come la maggior parte dei bambini della sua età, come anche Emiliano è stato.

Butta un occhio in direzione del balcone: il sole è così splendente che ogni colore sembra ancor più vivo del dovuto. Tutto è immobile: le fronde degli alberi, gli steli dei fiori, le nuvole in cielo. Solo il flusso del fiume e quello dei turisti più caparbi continua a scorrere, incurante del caldo torrido.

Gli vengono in mente scene della sua infanzia, il sole estivo gli fa sempre questo effetto, e si trova, da un lato, a volerle cacciare, e dall'altro a volerle trattenere disperatamente.
Adesso è una vecchia cantilena per bambini, che gli sembra essere cantata dalla voce di sua madre, a risuonargli in testa. E poi sono le sue gambe secche e scure in un paio di pantaloncini troppo larghi.
«Emiliano ca si troppu nìuru», un timbro infantile rimbalza lungo le strade deserte e assolate, fra le gambe metalliche delle sedie sulle quali sono seduti gli anziani. Ed Emiliano lo sa che è vero, perchè è un bambino dalla pelle olivastra, che si abbronza subito, e al sole non vuole starci, altrimenti lo chiameranno "il negro", "l'africano", "l'arabo". Ma un bambino che non vuole andare in spiaggia, secondo la mamma di Emiliano, non è normale; perciò grida, con quella voce da mamma che si ritrova, e dice che non può stare sempre in casa a ciondolare, a leggere fumetti, a suonare la chitarra che gli hanno regalato per il suo decimo compleanno: «Emiliano essi, ca c'è u sole!».

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