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Gioele sta per dire qualcosa, ma Greta lo ferma.

«Tranquillo» dice, spostandosi con le mani i capelli bagnati, «non è che adesso, improvvisamente, mi metto dalla parte di mia madre».

Gioele corruga la fronte, non capisce.

«Lei è come lui» continua Greta «che ti credi; la differenza è che lo so da molto più tempo».

Sposta la faccia al sole ed aggiunge: «Diciamo che adesso non sto dalla parte di nessuno».

Poi si vede costretta a raccontare l'intera versione dei fatti –«Sennò non mi credi» precisa, guardando Gioele-, e, con un po' di sforzo, ritorna indietro nel tempo, giusto di qualche mese.

13 febbraio, si ricorda perfino il giorno.
Si ricorda il momento in cui si è seduta in cucina per fare colazione. Si ricorda l'odore di caffelatte e di pane tostato. Si ricorda suo fratello Gabriele davanti alla televisione, il volume troppo alto e Francesca che gli prende di mano il telecomando –«Abbassa», lo rimprovera, «papà sta dormendo». Si ricorda i jeans di sua madre, con gli swarovski sulla tasca posteriore, il fermaglio con cui si era appuntata i capelli, la luce dei lampioni, ancora accesi, che entrava dalla finestra. Si ricorda ogni dettaglio dell'ultimo giorno che ha passato a credere che la sua fosse una famiglia felice.

Sa che quella mattina aveva mangiato sei biscotti, che Akù le aveva poggiato il muso sulla gamba, che suo padre aveva appena smontato dalla notte, e che sua madre aveva fretta.

«Dai, Greta, muoviti che alle otto devo essere in ospedale» le aveva detto Francesca, mentre si affrettava a riporre le tovagliette nei cassetti.

Non era arrabbiata, o almeno, Greta non ricorda che lo fosse; era frenetica, questo sì, come ogni volta in cui i suoi turni e quelli di Emiliano si incastravano male.

«Me l'hai firmato il permesso per la visita guidata?» le aveva chiesto Greta dopo aver dato l'ultimo sorso al suo caffelatte.

Sapeva che si trattava di un'uscita di poco conto –la sua classe sarebbe andata a Palazzo Vecchio, giusto un quarto d'ora di camminata dalla sua scuola media-, eppure si sentiva euforica: non dover portare i libri, non dover stare ad ascoltare le voci noiose dei prof, niente suono della campanella, niente uscite rapide nel corridoio al cambio dell'ora, niente guardare il telefono di nascosto sotto il banco, e scambiarsi messaggini con Flavia, a pochi metri di distanza.
Saltare le cinque ore che avrebbe dovuto passare seduta accanto alla cartina geografica dell'Europa, le sembrava la cosa più bella che le potesse capitare.

«Sì» aveva risposto Francesca, afferrando la sua borsa, «te l'ho detto anche ieri sera: è sul mobiletto in ingresso».

E mentre Greta aveva scostato la sedia per alzarsi, aveva assistito alla quotidiana battaglia tra la madre e il fratello per il grembiule nero che avrebbe dovuto indossare.
Le proteste di Gabriele l'avevano accompagnata fino al mobiletto di legno, fino alle foto incorniciate di loro due da piccoli, fino alla ciotola di metallo piena zeppa di cianfrusaglie.

Greta aveva sorriso: la sua vita, così com'era, le piaceva abbastanza.

Aveva continuato a pensarlo anche in macchina, mentre sua madre guidava canticchiando Luca Carboni, seguendo una canzone che stavano passando alla radio in quel momento.
Francesca mormorava: «Non è sempre estate, non è, sempre al mare non si è», e Greta guardava allegra dal finestrino i passanti che camminavano lungo gli argini del fiume e i giovani studenti universitari che sfrecciavano sulla pista ciclabile.
Annusava il profumo che la madre si era messa –le piaceva tantissimo quella fragranza- e rispondeva a un messaggio che le aveva inviato Bruno.
«Non è luglio, agosto e settembre» continuava Francesca, «sempre rivoluzione» e si fermava ad un semaforo rosso.

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