vier

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È ciò che in fondo ti aspetti, e sai che non può andare peggio. Il numero uno quando tiri un dado è la rassegnazione, quando pensi, okay, ormai, è andata. È uscito l'uno. L'uno non va.



La seconda faccia di un dado è quella che alla fine ti aspetti un po' di meno, è quella nascosta, la parte segreta di un dado tirato. E non va bene, no, ma non è il peggio.




Il tre è forse il numero più equilibrato fra tutti. La metà. Non è poco, non è troppo. Te lo aspetti un po' di più 'ché alla fine, il tre è il numero che trovi più spesso, ovunque.

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Il quattro per Anaïs significava speranza, come quando scali una montagna, e sei quasi alla vetta.

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Il cinque lo vivi, è il numero quasi perfetto, il numero quasi pieno, il numero che quasi speri di trovare quando lanci un dado a vuoto.

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Il sei è la completezza. Il sei è il massimo, il sei è perfezione, il sei è grandezza e magnificenza. Il sei è la vittoria contro qualcosa di opprimente.

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La settima faccia di un dado, invece, è quella che spaventa. È quella che non ti aspetti ma che alla fine spunta fuori e ti lascia spiazzato, in bilico sulle instabilità di un presente che non mette radici, senza sapere cosa fare. La settima faccia del dado di Anaïs era Harry.

Ci pensava quando disegnava, pensava allo stesso soggetto e ciò che ne usciva era un particolare di Harry che poi chiudeva in un cassetto. Aveva quella bellezza che rapisce, quella che non ti aspetti di trovare per strada. Lui era certamente l'opera d'arte più bella di quel museo, e vederlo proprio lì, dietro ad amore e psiche, che riempiva gli spazi che la scultura lasciava, il candido contrasto tra la perfezione artistica e la perfezione di Anaïs.
"Harry," lo richiamò poi. Non con tono interrogativo, non per riprenderlo. Era forse per una certezza, lei voleva sapere che lui fosse davvero lì.
"Anaïs, ciao," le rispose, la mani grandi che andavano a ripararsi nelle tasche della sua giacca scura.
Forse non aveva bisogno di sentire altro. Forse, solo sapere la sua presenza, le bastava e la completava in ogni modo ritenuto umanamente possibile.
Perché dopotutto lei lo sentiva, lo percepiva quando c'era e non percepiva la sua presenza quando, invece, non era con lei.
Ciò che Harry amava di lei era come le sbocciavano rose tra le mani quando le tracciava leggere sul foglio bianco. Amava di più il fatto che lo sapesse e non se ne vantasse. Amava il suo accento francese, le sue parigine e i suoi occhi profondi, senza fine, un po' come lei. E ci voleva niente a farle male, perché quando non hai fine sei subito profondo. Però sottovaluta l'emotività degli altri. E un po' doveva ferire non saperlo, ignorare i confini, consumarsi fino a per sempre. Aveva una sensibilità smisurata, Anaïs, nessuno sapeva dove si fermava, forse perché lei era così, una persona che ti scoppia dentro e si ferma non sai quando, sempre se si ferma.
E forse tutto ciò che Harry voleva era sentirla vicina come la sentiva in quel momento, mentre guardava la parete beige della sua stanza d'hotel. Non erano insieme, ma Harry la sentiva lì, come uno spettro, come uno spirito solitario costretto a vagare per trovare la pace in un mondo che non gli appartiene.
L'avrebbe sempre seguita, aveva fiducia in lei.

Guten Morgen/Tag/Abend
Ho una buona notizia ed una cattiva notizia:
× quella buona è che non avrò il debito in tedesco e, come si è visto, ho finalmente aggiornato;
× quella cattiva è che forse avrò quello in latino e per questo sarò un po' più impegnata, credo.
In ogni caso, spero che il capitolo vi sia piaciuto perché a me è piaciuto parecchio scriverlo.
Bacini e in bocca al lupo a chi deve recuperare l'ultima materia! ♡

art » h.sDove le storie prendono vita. Scoprilo ora