Leva

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Quella caserma non pareva conoscere sfumature, il bagno come le camere, il corridoio, l'atrio, tutto era così dannatamente simile, stessa puzza, stesse mattonelle, stessa sensazione contro le dolorose ginocchia di Manuel, ripiegato da interminabili minuti in quella soffocante posizione, gli occhi lucidi, una provvidenziale mano posata sulla tazza del cesso, cercando di mantenersi come meglio poteva.

Non bastava mai, eppure ci provava sempre.

Quel cazzo, caldo e duro fra le sue labbra, non fu abbastanza, alla vigilia della sua agognata libertà, per mettere a tacere lo stormo gracchiante di pensieri soffocanti, più di quanto lo fosse il blocco alle sue vie respiratorie, il premere insistente di quel sudiciume, tanto da far aderire il naso del ragazzo alla foresta incolta di pube degenerante per il suo olezzo, senza che Manuel fosse capace a protestare.

Tentava di tirare, la mano dei nei suoi capelli, fungendo da crudele promemoria, anche quella parte di lui gli era stata strappata via, tosata come una bestia da soma, solo per ucciderne quell'avanzo spiccolo di dignità, omologarlo a quei visi informi, che trattavano le armi come gioco e che guardavano alla morte come lavoro.

Arrivò poi, chiamato quanto inaspettato, troppo presto, eppure così tardi, la colata bollente, collosa, insipida, a prendersi ogni angolo della sua bocca, fare sua la gola, senza liberarlo del tutto, senza permettergli, di stringervisi attorno, mandare giù, lasciare a quel seme di venire corrotto dagli acidi del suo stomaco, e non doverci pensare più.

"Se ti va male con le macchine, Ferro, dovresti proprio considerare di fare la puttana come mestiere" il membro flaccido, privato del calore della sua bocca, fu rimesso in fretta al sicuro dietro il rancido di quei pantaloni, non prima che un paio di schiaffi, sonori se pur delicati, arrivassero alle guance di Manuel, ancora sporche di sperma "-e mi raccomando, qui non è mai successo niente."

Ne sentì il sapore tutta la notte, assieme all'asfissiante peso di una prigionia che non mutava mai, sbarre che cambiavano costantemente proprietario, ma mai materiale, incapaci di lasciarsi plasmare, modellare sotto i pugni di Manuel, che finivano per stringervisi attorno pur di rompersi, nella speranza di riuscire a fletterle abbastanza per poterci passare attraverso.

Cercava la libertà dove poteva, nel sesso, nella disobbedienza, arrivando ubriaco alle marce al mattino, facendo a cazzotti la sera, nel non rispondere alle chiamate della famiglia, nel tentare di racimolare e racimolare, fino ad avere abbastanza per aprirsi una cosa sua, dove si sarebbe chiuso all'interno, giorno e notte, pur di non vederla neppure in cartolina, quella via Prenestina.

"Manuè"

"Oh" il materasso scricchiolò sotto il suo peso, i suoi piedi andarono a sfiorare il freddo metallico della struttura sottile di quel letto, nel suo tentare di rivolgersi a chi dormiva in quello alla sua sinistra.

"Sei agitato per domani?"

"No, Giovà, sto tranquillo. Tanto, 'o sai te che cambia"

"Ma come tranquillo, non stai contento? Non tieni nessuno che t'aspetta?"

"Ts, io non c'ho un cazzo de nessuno"

Eppure il suo cuore tremò al solo immaginarsi quella possibilità, scendere da quel treno, rivedere Roma, nel suo punto più profondo, incrociare di nuovi quegli occhi, perché Simone era fatto così, e non si sarebbe fatto privare da nessuno l'occasione di andarlo a prendere, di persona, caricarselo stretto dietro il sellino della sua bici, lasciare che il suo busto venisse accolto dalle braccia di Manuel, tanto strette per assicurarsi di quella realtà, il volto premuto sul collo dell'altro, dove forse quei capelli, tanto ricci e tanto stretti, erano finiti per crescere, e l'avrebbero solleticato, assieme al vento, assieme ai baci.

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