Capitolo trentacinquesimo

690 36 145
                                    

«Ebbene, convissi due anni con una madre pazza, i cui atteggiamenti non fecero che divenire sempre più folli e irrazionali nel tempo, sfociando sempre nell'imprevedibilità; ed io, fanciullo stupido e privo d'amore, caddi più volte nei suoi tranelli, quando la sua natura si faceva momentaneamente mansueta», continuò, «Dovete sapere che qualche volta mi dava alcune carezze sulla testa, ma allo stesso tempo non potevo sapere quando mi avrebbe tirato i capelli. Ne cercavo quasi inconsciamente l'affetto, perché mi sentivo solo, ma allo stesso modo nutrivo timore nei suoi confronti, maturando così uno strano legame con lei che non aveva nulla di sano. Aveva episodi depressivi e violenti, che finivano spesso col farle salire la febbre alta; quindi uno dei ricordi maggiori che ho di lei quand'era calma è l'immagine della sua persona pallida e delirante a letto. Ricordo anche, invece, che in altri momenti si impiantava le unghie nella carne con così tanta foga e disperazione da farsi uscire il sangue; mentre più di una volta, nei suoi ultimi mesi di vita, aveva preso l'abitudine di chiudermi l'aria stringendomi per il collo – lo fece pure una volta mentre dormivo, e non sapete che paura ebbi avuto!-, e quando si fermava nel far ciò, raramente per suo volere e più delle volte perché interrotta dai miei nonni o dalla servitù, scoppiava in un pianto isterico da vittima.

Questa era la quotidianità con mia madre, la donna che avrebbe dovuto amarmi più di tutti; e quella maledetta serata di pioggia non era poi così diversa: i suoi occhi lucidi e indemoniati erano puntati sui miei, spalancati e spaventati, e mentre dalle mie labbra paralizzate dalla paura non usciva una parola, lei continuava a maledirmi: "Sei stato la mia rovina! Che tu sia maledetto! Che tu sia maledetto, Vincent!" mi ripeteva con foga incolpandomi di tutte le sue disgrazie, dell'abbandono di mio padre, e augurandomi tutta la sofferenza che provava lei; e credo che in quel frangente, tutta scossa com'era, sia riuscita davvero ad evocare il Demonio per maledirmi.»

Il viso di Vincent nel narrare quella vicenda si fece disperato e perso in un punto della stanza; Sophie ad osservarlo le vennero i brividi, e si chiese se stesse osservando il fantasma della madre, perché di fronte a lui non vi era nulla di concreto, eppure il suo sguardo era intenso e turbato.

«Io rimasi inerme e passivo tra le sue mani nervose e tremanti», proseguì l'uomo, «E mentre il mio corpo sembrava ormai aver accettato la morte per poter fuggire da tutta quella sofferenza, iniziai a pensare all'amore: cos'era davvero l'amore? Era il rapporto malsano che avevo per i miei genitori, che nonostante tutto li andavo sempre a cercare? Era lo sguardo gioioso di mio padre quando pensava che avrei realizzato egoisticamente il suo sogno? O ancora era il sentimento che aveva portato alla pazzia mia madre? Oh, l'amore, l'amore! Quel maledetto! Perché lo cercavo così tanto? Non mi piaceva affatto, faceva solo male! Lo detestai! E, pensai, io non avevo bisogno di alcun amore!

Riuscii a riprendere il controllo del mio corpo, certamente non guidato dalla mano di Dio ma più da quella del Maligno, e scivolai via dalle mani violente di mia madre dopo essere riuscito a spintonarla – lei era un fragile fuscello come mia moglie, quindi non fu così difficile, nemmeno per me che ero un bimbetto già discretamente alto-; presi dal tavolino un pugnale utilizzato come tagliacarte e, spinto da un animalesco senso di sopravvivenza, mi voltai sprofondandoglielo nella gola, e tirando goffamente fino a farne uno squarcio da cui iniziò subito a schizzare abbondante il sangue.

Il coltello cadde poi sul pavimento, ed io restai immobile a guardarla agonizzare: aveva il viso sconvolto e le lacrime che lo solcavano, non seppi se fosse tornata in sé, in quel momento, ma mentre soffocava nel suo stesso sangue provò a dire delle parole che non compresi; forse erano delle scuse, o forse solo altre imprecazioni e maledizioni. Ma alla fine crollò sul pavimento su cui iniziò a formarsi, a partire dalla sua gola, una grossa pozza rossa e copiosa, che mi parve propendere verso la mia direzione.

Le mie mani si sporcarono del peggiore dei crimini, eppure in quel momento il mio respiro si regolarizzò e mi sentii calmo, se non addirittura sollevato, per essermi riuscito a liberare finalmente da quel mostro. Le misi il pugnale nella mano e andai a chiamare i miei nonni dicendo che si fosse suicidata; mia nonna mi credette, invece mio nonno, vedendo la ferita e la posizione dell'arma nella sua mano – chiaramente strana e incoerente rispetto al taglio- ebbe dei dubbi che però manifestò solo in punto di morte: difatti, prima di spirare, mi chiese se mia madre si fosse veramente suicidata; mentendogli e rassicurandolo di non aver peccato poté andare in pace. Fu una delle mie poche menzogne a fin di bene.

Anime AffiniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora