Victor

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           Le cattive abitudini di un uomo possono essere molteplici. Lo stesso vale per le intenzioni, i pensieri, le azioni. E ci sono alcune cose, tra queste, che si trasformano in rammarico: le conversazioni sospese e rimandate, gli amori svuotati di ogni sentimento, le amicizie dimenticate. Questi pensieri sono come acqua gelata su ferite pungenti che provocano una sensazione di solitudine. Come per mia figlia. Lei, sta vivendo gli anni più belli, inconsapevole che saranno i più belli. Io la guardo da lontano. Tutti i giorni che posso cerco in lei un sorriso, anche solo accennato, magari immaginato. Oppure uno sguardo nella mia direzione, per vedere la luce nei suoi occhi che sono un po' anche i miei.

La vita è fatte di scelte.

Ma scelte anche sbagliate.

Fantasmi nello stomaco.

E poi stasera è stata una serata pessima. Mi aspettavo di più dalla festa di Giulia, la mia collega che insegna matematica, e che mi ha invitato per i suoi cinquant'anni, per poi scoprire che in realtà erano già cinquantuno perché l'anno scorso non li aveva festeggiati per via del lockdown, la parola inglese che sappiano pronunciare tutti in Italia.

La serata è stata una serata fatta di discussioni smunte, di parole vuote, circostanziali come il meteo in due minuti, come -hai visto la Ferragni?- , -dove andrete in vacanza?-...

A quel punto ho ceduto e li ho lasciati. D'altronde che senso ha una festa per i cinquant'anni compiuti un anno prima? L'invito, però, l'ho accettato volentieri, per spezzare la routine delle mie serate tutte uguali, quelle in cui decido di non andare da mia figlia, più o meno fatte di un computer davanti ai miei occhi e che mi porta in giro per il mondo stando fermo, e poco di più. Del whisky.

La festa era quindi un diversivo. Le ho comprato un regalo che pensavo fosse originale, ed infatti Giulia ha apprezzato. Non mi sbaglio quando penso che lei ha un debole per me e che io però non ho mai corrisposto. Tranne una volta, ma una volta soltanto non conta.

Un bacio, a cui non ne è seguito un altro. Soltanto uno. Una serata, a cui non è seguito altro. Neppure una telefonata. Soltanto gli sguardi a scuola.

Giulia è vedova, io... io non saprei cosa sono.

È molto tempo che non lo so.

Da quando ho deciso di vivere qui ho ulteriormente peggiorato la mia solitudine, e mi sono perso alla ricerca di un me stesso che non mi ha portato a nulla. E poi, quasi nessuno sale fino lassù dove vivo per venire da me: l'ultima casa, dell'ultima strada del paese, anzi oltre lo stesso paese visto che il cartello che sancisce il limite del comune è conficcato nella terra bruna poco prima della mia casa.

Perfino il postino trova una scusa diversa ogni volta che mi incontra per lasciarmi direttamente nelle mani quella poca posta che ricevo. Abbiamo anche un accordo: se è qualcosa di urgente, la lascia da Mario al bar, ma non capita mai. Mario, che poi non è il nome del proprietario, ma tutti lo chiamano così da quando ha comprato il bar che già portava quel nome.

In paese mi conoscono tutti, o quasi. Qui, un insegnante delle scuole medie è un'istituzione, forse più del prete, ma meno del carabiniere.

La scuola Manzoni ha una sola sezione dalla prima alla terza. Io insegno italiano, storia e geografia, e voglio pensare che al termine della mia attività avrò contribuito alla cultura di una generazione. Ma sarà poi vero?

A volte, alcuni genitori dei miei alunni mi invitano a pranzo, ma rifiuto sempre, ed allora quando mi incontrano in paese diventa difficile sottrarsi alla voce che stabilisce che "almeno un caffè" lo si debba pur accettare. Sono le stesse persone che fanno la fila nelle giornate di ricevimento per parlarmi dei loro figli, delle aspettative, dei voti brutti, dei consigli, delle richieste di ripetizioni. Io li ascolto, non li interrompo mai, aspetto paziente, poi quando viene il mio turno dico loro che non devono preoccuparsi dell'avvenire e di pensare unicamente al presente. Che la storia insegna, e che la geografia è essenziale e che l'italiano permetterà loro di fare strada. Dico sempre questo, da anni, e mi diverto a vedere le loro facce stupite. Capiranno che ho gli stessi dubbi?

Se solo sapessero.

Se solo sapessero che io sono come l'uomo invisibile, che nelle fotografie non rimane alcuna traccia di me, solo l'ombra della mia anima.

Se solo sapessero che nella mia voce non ci sono parole vere, ma solo di circostanza. Se solo sapessero i pensieri, se solo sapessero le azioni. Se solo sapessero chi sono, da dove vengo. Se solo sapessero come vedo io il mondo.

Se solo sapessero, di certo non mi lascerebbero parlare in mezzo ai loro figli, di certo non prenderebbero le mie parole dalla mia bocca. Mi terrebbero lontano, al giusto margine delle luci della città, o meglio del paese perché è poco più di questo dove vivono. E se potessero scegliere mi terrebbero anche più lontano delle stelle, così lontano che non mi vedrebbero lavare i miei peccati.

Se solo sapessero.

Ma non gli è dato sapere che io vivo controvento, che non dormo, che in certi momenti respiro a fatica, che la notte inseguo le stelle, che quando rispondo che sto bene non dico mai che ho finito i sogni, i desideri, la speranza.

Ma forse sbaglio. Forse non sono così come mi vedo, sono invece come mi vedono gli altri, in fondo conta quello e non è poi così male: sorridente, so ascoltare quei ragazzi che ho in classe tutti i giorni, che quando dico che sto bene è realmente così, che quando respiro l'aria, e l'aria è quella buona, provo ancora una sensazione positiva, che quando vedo incominciare una giornata con un bagliore lo vedo anche io, e che le stelle le inseguo per ricordarmi di chi mi ha voluto bene. Forse allora un po' di speranza c'è. E per me la speranza ha il nome di mia figlia, Elena.

Ieri sono andato davanti alla sua scuola, all'orario di uscita. L'ho osservata mentre attendeva che la venissero a prendere. Poi è arrivato lui, è sceso dalla macchina per abbracciarla e sono risaliti. Non so molto di quest'uomo, a parte che è un poliziotto e che sembra volerle molto bene. Gli sono grato per questo, anche se una parte di me lo invidia per il posto che occupa nella vita di Elena, quel posto che io stesso ho lasciato vuoto.

Osservarla e vederla felice è l'unica cosa che mi dà conforto, che mi fa pensare di aver preso la giusta decisione quindici anni fa. L'uomo di ieri non sarebbe stato in grado di essere un padre. Oggi, credo di sì, ma per ora mi accontento di tornare a casa. Che poi non è un obiettivo così difficile, sebbene non tutti siano in grado di tornarci dopo ogni tempesta. Io sì. Resterò in piedi.

Sono questi i pensieri che ho in testa mentre risalgo gli ultimi tornanti lasciandomi alle spalle la festa di Giulia.

Almeno non mi è rimasta in mente soltanto la scollatura, né le caviglie spigolose e neppure le spalle nude. Forse dovrei pensare a lei, mi dico, ma poi mi concentro nuovamente sulla strada che a quest'ora della notte è nera come la pece.

Spingo più forte sul pedale dell'acceleratore.

Sento la forza centrifuga del motore che mi spinge all'interno delle curve e le gomme tendersi nello sforzo di non scivolare. Tutto sfila alle mie spalle, l'insidia della strada, albero dopo albero, faccio attenzione che non vi siano animali del bosco con la tendenza al suicidio.

Ricordo che dietro alla prossima curva, mesi prima, avevo evitato un cane o un tasso, non ero riuscito a metterlo bene a fuoco, così rallento, l'affronto con cautela, scalo la marcia e sento il motore poco sopra dei giri che avrei voluto. Non succede niente e dopo un altro tornante sono arrivato davanti al cancello.

Scendo per aprire e sento freddo. Chiudo la giacca sportiva e mi stringo nelle spalle spingendo i pettorali per far defluire il sangue.

Cerco le chiavi in tasca.

Mentre apro il cancello esterno, dietro di me sento i giri motore al minimo, l'aria scivola sul viso, passo la mano sulla faccia, mi convinco che sono vivo, e penso che dovrei tagliare la barba.

Domani chiamerò Giulia.

Sì, "chiamerò Giulia", mormorò a bassa voce dopo averci pensato.

Entro e dietro di me si chiude il cancello con un rumore metallico, e con esso le mie intenzioni rimangono fuori. Poi mi volto, guardo verso la casa, ma mi distrae la luce del porticato sotto il garage.

Non ricordavo di averle lasciate accese.

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