Victor

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           Le certezze arrivarono dopo. La chiamai qualche giorno a distanza, forse una settimana, lei però non rispose e così per altri giorni successivi. Non ci volle molto a concretizzare in me prima una preoccupazione e poi un'ansia soffocante, telefonata a vuoto dopo telefonata a vuoto. Poi, ma non ricordo esattamente quanto durò quel poi, al telefono comparve il suo nome ed il suo numero. Risposi, ma dall'altra capo della chiamata trovai la madre. Disse che avevano viste le numerose chiamate perse, insieme a molte altre di altri amici, e che Martha aveva avuto un incidente, ma che ora stava meglio e che non ci fosse motivo di preoccupazione sebbene preferisse non fare lei direttamente tutte quelle telefonate. La madre non mi conosceva, ma si era premunita di sapere da Martha della nostra conoscenza l'estate precedente. "Grazie, si ora sta meglio", "Allora le faremo sapere, ma vedrà che la chiamerà lei più avanti" e "Sì, certo, le chiederò di richiamarla" furono più o meno le frasi di quella telefonata. Poi, quando la donna pensava di aver eseguito il suo dovere e stava per chiudere la conversazione, le feci una domanda che la spiazzò: "Il bambino, come sta?". Non seppi perché parlai di un bambino e non di una bambina, forse la precisazione mi uscii senza un reale motivo. Fu comunque nella sua esitazione che capii, anche se non fosse ancora una risposta definitiva ai miei dubbi. "Bene, ma...", disse con una voce incerta, ma senza completare la domanda che sicuramente mirava a sapere cosa sapevo, segno che Martha fosse convinta della mia assoluta inconsapevolezza. Non mi aveva dunque visto quel pomeriggio a Firenze, né dopo l'estate o in altro momento, e quindi come avrei avere contezza sapere della sua gravidanza? Dunque lei non lo chiese, la sua voce si bloccò, e io non glielo dissi, a dire il vero non dissi altro che un saluto fingendo di aver perso per un momento la comunicazione, ringraziando per la premura della sua telefonata e con gentilezza troncai la comunicazione. Ciò che però non era affatto chiuso, era basilare e cioè se fossi o meno il padre di quella gravidanza. In quel momento ero fortemente determinato a saperlo, ma ammetto non durò molto. Lascia passare qualche settimana, io vivevo a Cortona, con i miei genitori, lei ad Empoli, una distanza più che sufficiente perché fossero mondi separati senza vasi di comunicazione. Dentro per un po' rimestò un fuoco. Avevo ventidue anni, studiavo lettere a Pisa ed in settimana vivevo quasi sotto la sua torre. Nelle settimane che seguirono quella telefonata, mi rodeva il pensiero che avrei potuto ignorare la cosa. Andare avanti per la mia strada e creare quella che sarebbe stata la mia vita da adulto. Quale essa fosse stata, forse, non quella che poi ho realmente vissuto. Mi buttai nello studio con una furia che non avevo mai avuto prima, esame dopo esame, trenta e trenta e lode che mai avevo conseguito prima, e con quel ritmo misi facilmente alle spalle gennaio, febbraio e quasi tutto marzo. Ma fu proprio alla metà di quel mese che, libero dalle sessioni di esame, iniziai a fare i calcoli. Sette mesi, mi dissi, da agosto, sette. Consumai le strade di Pisa con quel sette stampati sotto le suole, e anche le strade di Cortona e i sentieri fuori dal mio comune. Dovevo sapere, togliermi ogni dubbio. In quel momento, infatti, era il non sapere a logorarmi, e non il senso di responsabilità. In entrambi i casi, ero ben lontano, ma lo capii tardi, da quello che avrei invece dovuto provare per te.

Iniziai in quel mese di marzo a venire ad Empoli. Avevo dato tutti gli esami della sessione, ed avevo quindi più tempo per me. Ma non conoscevo neppure l'indirizzo di casa di Martha, di lei avevo solo il telefono. Così, tutte le mie visite, i miei giri, andarono a vuoto. Ricordo, provavo tutta la frustrazione possibile, mi davo dello stupido nell'ostinazione di non voler telefonare a Martha, nascondendovi dietro il fatto che lei analogamente non avrebbe avuto voglia di sentire la mia voce. Ed invece era mio diritto e dovere accertarmi se fossi il responsabile della paternità, ma non lo feci mai, non ero certo infatti di voler realmente conoscere la verità. Ero immaturo al punto che regredii anche in altri aspetti della mi vita: mi allontanai progressivamente dagli amici, iniziai a non frequentare l'università, mi spostavo a Pisa in settimana ma solo per non dare preoccupazioni ai miei genitori. Aprile e maggio trascorsero collosi. Poi, le cose andarono come non avrei mai pensato. Fu Martha a chiamarmi. Era il quindici maggio. Lei aveva ventisette anni e si era laureata in legge da poco, la pratica l'avrebbe facilmente ottenuta attraverso lo studio di un suo zio, affermato avvocato in Firenze e Pistoia. Nel frattempo, avrebbe cresciute te, da sola, precisò con una voce ferma. Mi chiese se avessi voluto una prova della paternità, e del vantaggio economico, disse proprio così, per dimenticare e dimenticarvi.

Non era cattiveria la sua, non lo pensai neppure in quel momento, né dopo nel tempo. La sua intenzione fu quella di proteggerti da uno sconosciuto, più giovane di cinque anni e, non a torto pensando, immaturo come io stesso pensavo. Fui io il codardo. Dissi di "No" ad entrambe le domande, lei mi salutò ed io potei soltanto intuire le lacrime.

La mia vita iniziò da quei no.

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