XXIX

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Non andai dallo psicologo, non credevo di averne bisogno. In compenso il pensiero che dentro al corpo della mia fidanzata ci fosse un altro essere vivente mi portava a essere ancora più paranoico.

In casa mia ormai c’era una costante puzza di chiuso. Fino a pochi giorni prima erano i deodoranti per ambienti o i profumi de la.camyyy a fare da padroni. Era cambiato così tanto in così poco tempo.

Con le gambe fuori uso, non avevo più un senso da dare alle mie giornate. Girovagavo per casa con le stampelle scalpitando come un cavallo in scuderia, volevo correre, volevo sfogarmi, poi cercavo di camminare senza ma finivo sempre per desistere. Non provavo nemmeno così dolore, semplicemente mi mancava la forza per staccarmi da quelle fottute stampelle.

Facevo molte attività inutili. Aprivo e chiudevo gli armadi. Spostavo gli oggetti per rimetterli dov’erano prima. Mio padre non se ne accorgeva. La mia fidanzata mi vedeva, ma non sapeva cosa fare, anche perché spesso ero io a chiederle di andarsene.

Mi guardava impietosita e io, piuttosto che essere visto così, preferivo manifestare le mie manie di nascosto. Era un tacito patto: io rimanevo da solo in una stanza chiusa a “mettere a posto i cassetti”, dicevo proprio così, poi solo quando io avevo finito il mio compito entrava lei. Ero convinto che mi spiasse dalla serratura contro la mia volontà.

Non so bene cosa facesse, se toccasse ciò che avevo sfiorato io o se controllasse se fosse davvero ancora tutto in ordine. So solo che un giorno la sentii piangere. Non me l’aspettavo, non credevo potesse piangere per me. Rimasi ad ascoltare i suoi sussulti dal corridoio, ad auscultare il suo cuore o forse quello di entrambi. Ma non potevo intervenire, i cassetti di un’altra stanza mi stavano chiamando. 

Camera nostra. Era il comodino de la.camyyy, al fianco del nostro letto, a essere il prescelto. Non mi piaceva frugare nei cassetti degli altri, ma non guardavo più davvero, prendevo atto che nel mobiletto c’erano degli oggetti, non pensavo nemmeno cosa fossero o a cosa servissero.

Quello, però, attirò la mia attenzione.

Era un pezzo di carta che circondava qualcosa di lucente e spigoloso. Lo presi e lo scartai. Un brivido freddo mi percorse l’intera schiena, il mio sguardo era focalizzato su quell’oggetto, il resto era sfocato, il mio campo visivo si limitava a quello.

Fu di nuovo il 26 aprile: quello era un coltello.

Lo fissavo incantato, così tanto che mi scordai del pezzo di carta. Solo quando mi cadde posandosi dolcemente a terra mi accorsi che, su di esso, c’era incisa una scritta. Mi chinai, lo raccolsi, la lessi:

Guarda bene questo coltello, Strozzi, lo useremo per ucciderti.

Urlai fuori di me, non credevo di essere mai stato così terrorizzato. Quelli erano i tifosi o chi per loro e mi avevano fatto recapitare un coltello!

No, non poteva essere solo per il rigore, l’auto che avevo spaccato doveva essere di qualcuno d’importante, di chissà chi, forse del mio futuro assassino, non ci stavo capendo più niente. Non sapevo più cosa fare, le mie mani tremavano e il coltello traballava con loro, rischiando di cadermi a terra.

Il mio cuore batteva troppo forte, sì, poverino, dovevo farlo battere un po’ visto che, quando mi avrebbero ucciso, avrebbe smesso per sempre. la.camyyy  lo aveva nascosto, non voleva che mi preoccupassi, era stata fin troppo accorta.

Mi sentì urlare e accorse subito, spalancando la porta e fissando me e il coltello con lo sguardo di chi aveva capito che le campane suonavano già a morto. Non l’avevo mai vista in quello stato, dovevo avere fatto un acuto degno di un soprano.

VA TUTTO BENEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora