II. Violenze e abbandono

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Per avere solo sei anni, dentro di me portavo ferite e dolori che nemmeno un adulto sarebbe stato in grado di gestire ragionevolmente. 

 Ero una bambina malata sia dentro che fuori. 

Non potevo parlare e sentire e avevo enormi difficoltà a ragionare. La paura, la tristezza, la rabbia, l'odio, la solitudine e la fame mi torturavano giorno e notte impedendomi di pensare lucidamente, o di pensare principalmente. 

Arrivai all'orfanotrofio privata di tutto, persino del nome. 

Le cose non migliorarono minimamente; tutto peggiorò inevitabilmente. 

Quando gli altri bambini si accorsero delle mie disabilità ne approfittarono come poterono. Chi voleva mangiare di più mi rubava il cibo dal piatto, chi voleva qualsiasi oggetto che io possedessi se lo prendeva con la forza e chi voleva sfogare le proprie pene interiori mi usava come valvola di sfogo. 

 E io non avevo la forza di agire, la forza di cambiare la mia situazione. Facevo terribilmente pena. 

Avevo sempre qualche tipo di ferita, ero sempre quella più emaciata, ma stavo sempre zitta, per forza, ignara delle parole crudeli che il mondo attorno mi rivolgeva ogni giorno perché incapace di ascoltarle. 

Gli unici momenti di mera felicità che mi concedevo erano quando mi isolavo nei ricordi di mia madre prima di andare a dormire, forse per questo motivo ricordo molto bene avvenimenti che mi accaddero in così tenera età. 

Non c'era notte che non piangessi e giorno che non restavo in silenzio. Era come se non esistessi per nessuno. Non avevo nome per essere chiamata o orecchie per sentirlo e nemmeno voce per rispondere. 

Pensavo che non ci fosse più via d'uscita, finché non notai la presenza di una persona che avrebbe cambiato la mia vita completamente, che mi avrebbe risvegliato dalla malattia dell'animo che mi affliggeva e dai recenti pensieri suicidi che facevano capolino tra i miei teorici metodi di fuga e soluzione. 

Sette anni e pensare al suicidio. Tanto era grande il peso sulla mia anima.

Il primo anno fui troppo occupata dal mio dolore per accorgermene, ma presto iniziai a notare che qualcosa che a me era conosciuto stava accadendo tra quelle mura che non avevano mai visto quello che invece i miei occhi videro, cioè la magia. 

Ad alcuni bambini accadevano cose che io avevo subito riconosciuto come di origine magiche. Mi mancava quella parte della mia vita passata e finalmente ebbi qualcosa a cui pensare che non fosse completamente negativo. 

Ero curiosa di capire chi ne fosse l'artefice. 

Passò un altro triste e agognato anno e un ragazzino più grande di me almeno con tre anni mi prese di mira in maniera insistente, lo avevo soprannominato "Buck". 

Lui tra tutti, sembrava se la prendesse con me per puro sadismo, iniziai ad avere paura di incontrarlo in qualsiasi momento. Penso fosse uno dei suoi passatempi preferiti prendermi per i capelli facendomi domande che io non potevo sentire e come punizione, per non ricevere risposte, sbattermi la testa al muro, pavimento o tavolo all'occorrenza per poi ridere in modo maligno. Eravamo sempre soli quando accadeva, o almeno mi piace pensare fosse così, con la speranza che nessuno lo fermasse perché nessuno lo sapeva. Ma a ogni incontro diventava sempre più violento e io avevo sempre più paura. 

Un giorno persi i sensi e fui ritrovata da una delle ragazze del personale in uno dei bagni con la testa in un pozza del mio stesso sangue. Anche se non avevo detto nulla, credo che minacciarono pubblicamente con terribili punizioni chiunque sarebbe stato beccato a prendersela di nuovo con me; dall'espressione di Buck credo avessero offeso l'artefice delle mie ferite con parole che richiamavano facilmente vendetta nella mente di qualcuno così violento e senza rimorsi. 

Il Diario Segreto di una Strega PerdutaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora